giovedì 28 gennaio 2016

Scuola Zoo


Chi siamo


Oggi quasi tutti gli studenti di Italia sanno che ScuolaZoo è il rappresentante di classe su cui fare affidamento se hai un problema, il genio da ascoltare durante le verifiche e il compagno con cui ridere e divertirsi all’intervallo, ma come è nata ScuolaZoo?
L’avventura di ScuolaZoo ebbe inizio dalle diaboliche menti di due studenti Padovani Francesco e Paolo all’ultimo anno delle superiori, quello della maturità. Tutto cominciò con un piccolo blog dove gli studenti caricavano video divertenti girati nelle scuole italiane. Iniziarono ad arrivare centinaia e centinaia di segnalazioni e di video dagli studenti di tutt’Italia e quindi i due capirono che il loro “passatempo” piaceva a moltissimi altri ragazzi.
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Finché Paolo non pubblicò la foto del suo prof d’Italiano addormentatosi durante gli Esami di Maturità. Tutti i giornali e i telegiornali d’Italia parlarono dell’accaduto incoronando i due studenti di fama e popolarità. Così, per tutti gli studenti d’Italia, diventarono un modello da seguire per smascherare tutto ciò che nelle scuole italiane non funziona. Persino il Ministro dell’Istruzione si è interessato al prof. di Paolo e così ecco i due fondatori di ScuolaZoo andare in prima serata su MTV insieme al Ministro per denunciare il tutto.
Il blog di ScuolaZoo diventò un sito vero e proprio. I video, le note di classe divertenti e gli aiuti forniti agli studenti diventarono tantissimi. Francesco e Paolo non riuscivano a fare tutto da soli, per cui arrivarono amici e conoscenti a popolare il team di ScuolaZoo. Nei laboratori segreti le menti dei fondatori partorirono anche diaboliche invenzioni per aiutare gli studenti a superare il “vuoto cosmico” che a volte colpisce le nostre menti durante i compiti in classe. Inoltre con l’aiuto di Betty cominciarono a organizzare viaggi estivi e invernali per studenti, in giro per l’Italia e l’Europa e a pubblicare il meglio dei contenuti della community sul famosissimo diario di ScuolaZoo, compagno di risate, appunti e giochi di oltre 200.000 ragazzi!
Visto che il sito e la pagina Facebook diventarono i più seguiti d’Italia, il gruppo di ScuolaZoo diventò sempre più numeroso proprio per poter offrire a tutta la community contenuti non solo divertenti, ma anche utili e informativi. Infatti ci siamo trasformati in un giornale online, abbiamo iniziato a pubblicare articoli veri e propri per raccontare a tutti gli studenti cosa succede nel mondo, ma in modo comprensibile e dal punto di vista di noi ragazzi.
È ai compagni di quinta superiore a cui diamo maggior attenzione, la Maturità è la Maturità e quindi abbiamo creato una sezione del sito e una pagina facebook ad hoc per i maturandi, giriamo l’Italia in occasione dei famosi 100 giorni e la “Notte prima degli esami” ci stringiamo insieme a cantare Venditti e augurarci di vederci presto a Corfù, destinazione tra le più famose per il Viaggio di Maturità by ScuolaZoo.

Anche se stiamo crescendo non potevamo dimenticarci come tutto è nato dalla denuncia del prof. di Paolo e quindi come ScuolaZoo offriamo sostegno gratuito a chi è vittima di “mala istruzione” con i Giuristi; ci siamo inventati la lista ScuolaZoo a sostegno dei Rappresentanti d’Istituto, movimentiamo le Assemblee d’Istituto degli studenti d’Italia…

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Insomma il gruppo di ScuolaZoo è diventato il rappresentante di classe e il compagno di banco di tutti gli studenti dai 14 anni fino alla maturità, con mille e una attività in corso. La nostra missione è ormai chiara a tutti: portare in tutte le scuole d’Italia un vero e proprio cambiamento, partendo dalla nostra doppia anima che è sia Scuola sia Zoo: ci piace infatti andare bene a scuola, conoscere, imparare (senza fare troppo i secchioni però!), ci piace proporre idee nuove e rendere le nostre aule dei posti più giusti e stimolanti dove apprendere e crescere ogni giorno; ma siamo anche Zoo, il che non vuol dire che ci piace abbaiare o urlare come gorilla, semplicemente amiamo divertirci e prendere la vita con un sorriso, in classe, durante i nostri viaggi, sui social network e perché no, anche con i professori. Certo non avremo la media più alta della scuola, ma siamo riusciti a far sorridere tutti i prof, anche quello di latino!

Vuoi contattarci?
Chiama lo 02 89950340 o scrivi a scuolazoo@gmail.com ti risponderà la nostra Francy :-)
Se hai qualcosa da dirci sulla tua scuola ecco i contatti della redazione
Se, invece, vuoi contattare Paolo, il fondatore di ScuolaZoo, scrivi a paolo.fondatore@scuolazoo.it

domenica 24 gennaio 2016

Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti

- BIOGRAFIA -

Simon Wiesenthal è un simbolo, e l’uomo che ha speso tutta la sua vita per abbeverarsi al calice della giustizia, è l’uomo che ha braccato per tutto il mondo gli infami protagonisti della follia nazista, ma non per vendetta ripeto, ed è bene ribadirlo, ma per giustizia, per 6 milioni di Ebrei, per omossessuali, dissidenti politici, zingari, schiavizzati, seviziati, torturati, utilizzati quali cavie da laboratorio, spietatamente massacrati.
 
Risultati immagini per simon wiesenthal Simon Wiesenthal nasce il 31 dicembre del 1908 a Buczacz allora Polonia (oggi è territorio Ucraino), i suoi studi sono in architettura, professione da lui brevemente esercitata, fino all’invasione Nazista in Polonia del settembre 1939 e la spartizione come da accordo Hitler-Stalin della stessa nazione.
Simon Wiesenthal si trova a Leopoli caduta in zona d’influenza sovietica, si vede costretto ad abbandonare la professione di architetto per evitare quello che è valso per molti, la deportazione in Siberia.

Con l’operazione Barbarossa del 1941, e l’invasione delle truppe naziste in territorio sovietico, si ha il passaggio da carnefice a carnefice.
Simon Wiesenthal peregrinerà da campo di concentramento a campo di concentramento (ben 13), quando riuscirà per poco a fuggire e a vivere in clandestinità, verrà rintracciato, torturato ed internato.

Il 5 maggio 1945 le truppe alleate, entrano e liberano in campo di Matausen dov’è prigioniero lo stesso Wiesenthal, lo spettacolo che si presenta agli occhi degli alleati è agghiacciante, le prime cineprese possono documentare ciò che per molti era solo un sentito dire, la barbarie più oscena ed atroce.
Da uomo nuovamente libero, sa che tutta la sua famiglia è stata sterminata, ritroverà la moglie anch’essa vittima della follia nazista, un anno più tardi vedrà la luce la loro unica figlia.

Collaborerà nell’immediato dopoguerra con l’OSS (precursore dell’odierna CIA) per l’acquisizione di documenti utili per il processo di Norimberga, concluso in quale, conscio che molti non avevano ancora pagato, con un gruppo di amici a Linz (Austria) apre il Centro di Documentazione Ebraica proseguendo il lavoro nella ricerca dei criminali nazisti.

Decise come ebbe a scrivere, di farsi da portavoce di coloro che non sono sopravvissuti perché nessuno dimentichi la loro memoria, perché la giustizia contro i crimini di guerra non ha limiti.
La sua arma era spulciare tra i documenti dell’enorme burocrazia del terzo Reich, perché seppur distrutti qualcosa rimaneva, carte, foto, testimonianze. Nel 1947 inizia anche la guerra fredda, i due mondi contrapposti, esce di scena il tremendo passato, la nuova dimensione è fatta dalle due superpotenze in antitesi l’una con l’altra.

In questo clima, troppi sono gli ex criminali di guerra nazisti a collaborare con le due superpotenze, cosa che genera l’abbandono degli amici del centro di documentazione ebraico di Linz.

Nel 1954 Wiesenthal chiude l’ufficio di Linz, spedisce tutta la documentazione da lui reperita all’archivio dello Yad Vashem l’ente preposto dallo stato Israeliano a seguire le vicende inerenti l’olocausto.
L’unico faldone di documenti che trattiene riguarda Adolf Heichmann lo stratega della “soluzione finale” del problema ebraico, l’organizzatore dello sterminio di milioni di innocenti, ebrei, omosessuali, asociali, zingari, testimoni di geova, disabili, dissidenti politici. Wiesenthal inizia la sua caccia all’assassino del quale non si aveva riscontro fotografico, con un lavoro straordinario, meticoloso, scopre nel 1959 che il mostro si trova in Argentina sotto falso nome (Ricardo Kleber) assieme alla moglie e lavora in una fabbrica d’auto.

La documentazione giunge allo stato di Israele, il quale pianifica un operazione in loco, l’11 maggio 1960 l’arresto di Heichmann, la consegna in Israele, dove due giorni dopo il presidente Ben Gourion annuncia alla Knesset la cattura del criminale e il processo a suo carico.
Grazie alla documentazione del cacciatore Wiesenthal, il 31 maggio 1961 Heichmann viene condannato a morte per impiccagione. Rinfrancato da questo importantissimo successo, Wiesenthal torna a Vienna ed apre nuovamente la sua attività, ottenendo collaborazioni da reduci di guerra, militari, ed anche da ex-nazisti “pentiti”.

Ma lo spauracchio dell’oblio è ancora pesantemente presente, i tentativi di gruppi neonazisti di fare del revisionismo storico, ritenendo una fandonia il diario di Anna Frank (la ragazzina di soli 16 anni che deportata con la famiglia troverà la morte ad Aushwistz, il padre unico superstite, recupererà il diario nella soffitta della casa, e lo farà pubblicare).

Anne Frank Remembered (1995) Ad una trasposizione teatrale del libro stesso, una forte contestazione di giovani fanatici neonazisti condusse Simon Wiesenthal ad indagare su chi fosse stata l’SS che nel 1944 arrestò la bambina e la famiglia, se avesse ritrovato la stessa, nessuno avrebbe potuto confutare il libro in questione.
Le prove a disposizione di Wiesenthal sono frammentarie e di una pochezza allarmante, ma il testardo cacciatore non demorde, nel 1963 l’uomo in questione viene individuato in un membro della polizia austriaca, tale Silberbauer il quale confesserà l’arresto della bambina e della sua famiglia.

Simon Wiesenthal aveva fatto nuovamente colpo, aveva permesso alla verità di emergere, alla realtà delle cose di imporsi. Simon Wiesenthal ha permesso di rintracciare, arrestare, condannare 1100 criminali di guerra nazisti, suo unico cruccio è stato quello di non essere riuscito ad acciuffare il “Dott.morte” Mengele, lo spietato scienziato della morte, e della razza ariana fatta in laboratorio (i resti del cadavere presunto di Mengele saranno ritrovati in Brasile).

Simon Wiesenthal in una conversazione degli anni ’60 quando gli venne chiesto il perché non avesse continuato la professione di architetto, lui rispose che quando si fosse trovato al cospetto di D.o e di tutte le persone conosciute su questa terra, a chi gli avesse chiesto che cosa aveva fatto nella sua vita, avrebbe risposto: “Non vi ho dimenticati”.

Simon Wiesenthal si spegne a Vienna il 20 settembre 2005, all’età di 96 anni, il cordoglio del mondo delle istituzioni, della comunità ebraica mondiale è unanime, Simon Wiesenthal riposerà in Israele (ad Herzelya).

Il grande cacciatore di nazisti se ne va, i libri di storia parleranno di lui, della sua vita votata alla causa della giustizia, perché non c’è alcuna libertà senza giustizia come amava ripetere, ed è per le nuove generazioni sempre più vuote di doti morali, di coscienza storica e facilmente eccitabili da meschini sobillatori che la vita di questo grande uomo deve rimanere ben impressa nella mente e nel cuore.
Piccolo frammento di un intervista rilasciata nel 1990 da Simon Wiesenthal alla tv svizzera del cantone italiano:

"L'Olocausto lascia un segno indelebile in chi lo ha vissuto, non termina i suoi effetti nefasti con la Liberazione. Continua ad esserci dentro, non si riesce mai più a provare una vera gioia. Mi ricordo che una volta, a Los Angeles, il mio amico Zubin Metha, il famoso direttore d'orchestra, mi invitò a un concerto. Suonò un giovane pianista, bravissimo, e suonò Rachmaninoff, il mio compositore preferito. Suonò in modo così meraviglioso che a un tratto, durante il concerto, il pubblico spontaneamente si alzò in piedi ad applaudirlo.
Anch'io feci come gli altri, ma poi mi risedetti. Non potevo continuare ad applaudire.

Lo raccontai poi a Metha, che mi chiese: “Perché, cosa è successo, che cosa ti opprimeva?” 
Io risposi: Mi opprimeva il pensiero di quanti giovani talenti come lui, persone meravigliose, che potevano dare gioia all'umanità, sono stati sterminati, senza essersi resi colpevoli di nulla”.
E questo mi ha offuscato la gioia: ho pensato a quelli che sono stati sterminati. Vede, nulla e nessuno può guarire la mia anima ferita. Così è. C'è un proverbio che dice: “Tutto nella vita ha il suo prezzo, e io lo pago, e posso guardare in faccia a tutti. Questo è una specie di ricompensa.

Giacomo Franciosi



FONTE: cronologia.leonardo.it

venerdì 22 gennaio 2016

Zygmunt Bauman: “I social network sono una trappola”

Zygmunt Bauman ha appena compiuto 90 anni.

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Tutto ciò che era solido si è liquefatto, “i rapporti umani sono diventati effimeri”:  il padre della “modernità liquida” è una figura di riferimento della sociologia. La sua denuncia alla crescente diseguaglianza, la sua analisi sul discredito della politica o la sua visione sulla rivoluzione digitale sono diventati un punto di riferimento per il movimento globale di Occupy e degli indignados.

Polacco (Poznan, 1925), era un bambino quando la sua famiglia, ebrea, fuggì dai nazisti verso l’Urss; nel 1968 dovette lasciare il suo paese, privato della sua cattedra ed espulso dal partito comunista in un’epurazione segnata da antisemitismo dopo la guerra arabo-israeliana. Rinunciò alla sua nazionalità, emigrò a Tel Aviv e si stabilì in seguito all’Università di Leeds, che lo ha ospitato per la maggior parte della sua carriera. Il suo lavoro, che è iniziato negli anni sessanta, è stato riconosciuto con premi come il Principe delle Asturie per la comunicazione e l’umanistica nel 2010, con il suo collega Alain Touraine.

È considerato un pessimista. La sua diagnosi della realtà nei suoi ultimi libri è estremamente critica. In “La ricchezza di pochi a vantaggio di tutti?” (2014) spiega il prezzo elevato del neoliberismo trionfante degli anni Ottanta e la “trentina opulenta” che ne seguì. La sua conclusione: la promessa che la ricchezza di quelli in alto filtrerebbe a quelli in fondo è stata una grande bugia. In “Cecità morale” (2015), scritto con Leonidas Donskis, avverte della perdita del senso di comunità in un mondo individualista. Nel suo nuovo saggio torna a quattro mani, in dialogo con il sociologo italiano Carlo Bordoni. Si chiama “Stato di crisi” e tenta di far luce su un momento storico di grande incertezza. 

Nell’intervista concessa al El Pais, alla domanda se vede la disuguaglianza come una “metastasi” e la democrazia in pericolo, risponde: “Quello che sta accadendo ora, ciò che noi chiamiamo la crisi della democrazia, è il crollo della fiducia. La convinzione che i leader non sono solo corrotti o stupidi, ma sono incapaci. Per agire è necessario potere: per essere in grado di fare le cose; e la politica è necessaria: l’abilità di decidere quali cose debbano essere fatte. Il punto è che il matrimonio tra potere e politica nelle mani dello stato nazione è finito. Il potere è diventato globale, ma le politiche sono locali come prima. La politica ha tagliato le mani. La gente non crede più nel sistema democratico, perché non soddisfa le sue promesse. È quello che sta diventando chiaro, per esempio, con la crisi della migrazione. Il fenomeno è globale, ma agiscono in termini parrocchiani. Le istituzioni democratiche non sono state progettate per gestire situazioni di interdipendenza. La crisi della democrazia contemporanea è una crisi delle istituzioni democratiche”.
Il pendolo tra libertà e sicurezza da che parte oscilla? chiede il giornalista a Bauman.

“Sono due valori estremamente difficili da conciliare. Se si dispone di una maggiore sicurezza bisogna rinunciare a qualche libertà, se si vuole più libertà si deve rinunciare a più sicurezza. Questo dilemma continuerà per sempre. 40 anni fa abbiamo pensato che avevamo conquistato la libertà e ora siamo in un’orgia consumistica. Tutto sembrava possibile con la carta di credito: vuoi una casa, una macchina … la pagherai più tardi. È stato molto amaro il risveglio del 2008, quando il credito facile è finito. La catastrofe che avvenne, il collasso sociale, fu per la classe media, che è stato subito trainata da quello che chiamiamo il precariato. La categoria di coloro che vivono in una precarietà permanente: non sapere se la vostra azienda si fonderà o la comprerà un’altra e andrà a chiudere, non sapendo se gli è costato tanta fatica… Il conflitto, l’antagonismo non è tra le classi, ma di ogni persona con la società. Non è solo una mancanza di sicurezza, è anche una mancanza di libertà”. 

E sul modo in cui i social network hanno cambiato la protesta sociale?

“La questione dell’identità è stata trasformata in qualcosa a cui è stato dato un compito: è necessario creare la tua comunità. Ma non si crea una comunità, o ce l’hai o no; ciò che i social network possono creare è un sostituto. La differenza tra la comunità e la rete è che si appartiene alla comunità, ma la rete appartiene a voi. È possibile aggiungere amici e eliminarli, è possibile controllare le persone con cui siamo legati. La gente si sente un po’ meglio, perché la solitudine è la grande minaccia in questi tempi di individualizzazione. Tuttavia nella rete è così facile aggiungere o eliminare gli amici che non abbiamo bisogno di abilità sociali. Queste si sviluppano quando sei per strada, o sul posto di lavoro, e incontri persone con le quali devi avere un’interazione ragionevole. Devi affrontare le difficoltà di coinvolgerli in un dialogo. Papa Francesco, che è un grande uomo, ha dato la sua prima intervista a Eugenio Scalfari, un giornalista italiano che è un ateo auto-proclamato. È stato un segnale: il dialogo reale non è parlare con persone che la pensano come te. I social network non insegnano il dialogo, perché è così facile evitare le polemiche… Molte persone usano i social network non per unire e per ampliare i propri orizzonti, ma piuttosto, per bloccarli in quelle che chiamo zone di comfort, dove l’unico suono che sentono è l’eco della propria voce, dove tutto quello che vedono sono i riflessi del proprio volto. Le reti sono molto utili, danno servizi molto piacevoli, però sono una trappola”.


giovedì 21 gennaio 2016

Forse è perché siamo ebrei?

Che sia in un negozio hypercacher di Parigi, in un pub di Tel Aviv o in un insediamento in Cisgiordania, c’è sempre qualcuno là fuori che vuole ucciderti
 
di Marc Goldberg
Marc Goldberg, autore di questo articolo
l'autore di questo articolo
Devo confessare che provo un singolare sentimento, di fronte alla (scarsa) reazione suscitata nel mondo dall’assassinio di Dafna Meir. Non sono offeso. Non sono neanche sorpreso. Sono combattuto. Combattuto tra arrendermi del tutto e ammettere che sì, evidentemente questo è proprio il destino che ci tocca nella vita, oppure sostenere che è tutta colpa dell’occupazione. Combattuto tra sostenere che non importa dove viviamo, non importa se la nostra casa si trova al di qua o al di là di un linea immaginaria disegnata nella sabbia, oppure sostenere esattamente il contrario.

Dafna era una persona di gran cuore. Non occorre averla conosciuta per capirlo. Madre di quattro figli e madre adottiva di altri due, per di più infermiera. Una donna vissuta per aiutare gli altri e morta lottando strenuamente con l’aggressore per difendere i suoi figli. La sua unica colpa era essere ebrea.
Dunque no, non sono offeso e non sono neanche sorpreso. Dafna non è stata certo la prima di noi a cadere in questo modo, e non sarà l’ultima. Il giorno dopo il suo omicidio, non molto lontano da lì una donna incinta è stata ferita in un altro attacco al coltello. Il suo delitto? E chi lo sa? Posto sbagliato nel momento sbagliato? Indirizzo sbagliato? Solo un paio di settimane fa un uomo ha aperto il fuoco nel centro di Tel Aviv. Qual era stato il delitto commesso da quei morti e feriti? Indirizzo sbagliato? Religione sbagliata? Posto sbagliato nel momento sbagliato?

Dafna Meir e il marito Natan
Dafna Meir e il marito Natan
No, non sono offeso e nemmeno sorpreso. Sono combattuto. Questa non mi sembra una nuova intifada, quanto piuttosto una nuova normalità. Non credo (come suggerisce il governo) che l’Autorità Palestinese sia in qualche modo responsabile di tutto questo. Credo invece che tutto questo non sia altro che una manifestazione dell’odio che il palestinese della strada prova verso l’israeliano della strada. Un odio evidente sin da prima che esistesse uno stato d’Israele. E così sono combattuto: è a causa di Israele che gli ebrei vengono uccisi in questo modo, oppure è Israele che è nato perché gli ebrei vengono uccisi in questo modo? Prima che ci fosse uno stato d’Israele, gli ebrei venivano uccisi come adesso. Solo che allora vigeva l’impunità: nella zona di residenza coatta zarista, nei ghetti d’Europa, in Medio Oriente. Non avevamo un esercito e un’aviazione, non avevamo sofisticati sottomarini e scaltri servizi di spionaggio. Non avevamo una bandiera con una stella di Davide in bella evidenza. Mentre scrivo queste parole, dei soldati ebrei sono in giro nella notte alla ricerca dell’assassino di Dafna, alla ricerca di un po’ di giustizia in un mondo che non ne conosce molta. Andranno di casa in casa, i servizi di sicurezza interpelleranno i loro informatori, i controlli ai posti di blocco saranno ancora più meticolosi. Lo scoveremo e verrà preso. Vivo o morto.
Ma non cambierà nulla. Siamo ebrei ed è così che viviamo. Che sia in un negozio Hypercacher di Parigi, in un pub di Tel Aviv, in una sede Chabad a Mumbai o in un insediamento in Cisgiordania, c’è sempre qualcuno là fuori che vuole ucciderti. E se desiderano la tua morte più di quanto desiderino la loro vita, allora hanno buone probabilità di riuscirci.


“Coloro che l'hanno uccisa e celebrano la sua uccisione, commettono un errore enorme”

Settantatré anni fa, nel 1943, era in corso la prima rivolta nell’Europa occupata dai nazisti. Non venne dai milioni di prigionieri russi, né dalle forze della resistenza sostenute dagli inglesi. Venne dai giovani ebrei del ghetto di Varsavia affamati, malridotti, brutalizzati. Militarmente parlando i loro successi furono minimi. Vennero sconfitti non appena i nazisti fecero affluire forze sufficienti. Ma non è questo il punto. Il punto è che, mentre c’erano uomini addestrati alla guerra fermi nei campi e nelle città in giro per l’Europa, fu un gruppo di ebrei traumatizzati e morti di fame quello che indicò la strada da seguire. Fu quella nostra determinazione e quello spirito combattivo che accese il primo fascio di luce in un mondo di tenebre.
Ora siamo un popolo libero che vive nella sua terra. I nostri nemici possono uccidere alcuni di noi, ma non ci possono distruggere. Possono provocarci immenso dolore, ma non ci possono sconfiggere.

Dafna è morta e non ci sarà mai più un’altra come lei. E io non sono offeso, e nemmeno sorpreso. Sono stoico, sono ebreo. La mia determinazione non vacilla, il mio sionismo è intatto, così come il mio impegno verso la mia gente. Dafna è morta e non ci sarà mai più. Ma coloro che l’hanno uccisa e celebrano la sua uccisione commettono un errore enorme. Guardo mia moglie e mia figlia e mi chiedo se un giorno toccherà a loro, che sia in una gastronomia kasher a Londra o in un pub a Tel Aviv. O forse saranno loro in lutto per me. Ma poi mi viene in mente qualcos’altro. Mi viene in mente che io sono parte di un grande popolo, del popolo di Israele. Sono un ebreo. Oltre ad avere nemici, ho fratelli e sorelle e amici in tutto il mondo che farebbero di tutto per aiutarmi. Mi viene in mente che i miei padri hanno saputo sopravvivere e sconfiggere nemici e tiranni. E non sono più combattuto. I nostri nemici pensano che siamo deboli perché litighiamo e discutiamo. Ma io so che è proprio perché siamo capaci di litigare e discutere e poi volerci ancora bene, che siamo forti. E non sono più combattuto. Sono fiero. Fiero di Dafna e della vita che ha vissuto. Fiero di essere ebreo. Fiero dei nostri risultati e del paese che abbiamo creato. Dafna è morta, ma ‘Am Israel chai, il popolo d’Israele vive e continuerà a vivere e a prosperare. E’ così che le renderemo omaggio.

(Da: Times of Israel, 19.1.16)

letto su: http://www.israele.net/forse-e-perche-siamo-ebrei

Io non mi suicido


Giuseppe Baffigo

Io come Massimo Beretta non mi suicido.

Mi chiamo Giuseppe Baffigo, lavoratore autonomo, prima ancora marito di una donna splendida e padre di due altrettante splendide figlie, dichiaro apertamente di non riuscire più a pagare, con i miei incassi, tutte quelle tasse che lo Stato mi chiede.

Mi appello ai principi dello stato di necessità e della capacità contributiva proporzionale al proprio reddito, stabiliti rispettivamente dagli Art. 54 c.p. e 53 Cost. per legittimare il mio rifiuto categorico di continuare a contribuire, attraverso le tasse, alle spese per il mantenimento dei privilegi della classe politica che ci governa, vera protagonista di questa crisi economica.

Con le loro scelte hanno mantenuto uno Stato parassitario, e scaricato le proprie responsabilità verso le categorie più deboli, in particolare piccoli commercianti e artigiani.
Tassa dopo tassa ci hanno portato allo stremo e oltre, spesso inducendoci a pensare seriamente al suicidio. E questa è l’accusa maggiore che faccio ai nostri governanti: induzione al Suicidio.

In questi anni ho cercato di pagare le bollette, che sono quadruplicate, ho cercato di pagare le tasse comunque quadruplicate, ho cercato di mantenere in vita la mia attività portando al minimo i costi di gestione e riducendo le mie entrate, perché costretto ad abbassare i prezzi (nonostante l’Iva) per mantenere la clientela. Di conseguenza ribadisco apertamente di non poter più pagare ulteriori tasse: non sono un delinquente, non sono un ladro e non voglio essere un evasore, ma davanti a una politica che continua insensatamente a mantenere privilegi e costi sproporzionati, vergognosi e irrispettosi nei confronti di tutti i lavoratori di questo paese, inizio questa protesta economica appellandomi ai due sopracitati principi:

Art. 54 co.1 del Codice penale: stato di necessità.

Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Il vertiginoso e incontrollato aumento delle tasse ha prodotto un danno grave e attuale alla mia famiglia mettendo in pericolo soprattutto il futuro mio e di mia moglie e nessun futuro per i figli/e. 

Art.53 co.1 della Costituzione italiana: tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Io non incasso abbastanza per pagare tutte queste tasse e se non incasso abbastanza vuol dire che c’è qualcosa nei conti dello Stato che non funziona e quindi essendo cittadino italiano esigo che lo Stato si faccia garante della mia condizione familiare.

DIFFONDIAMO IN RETE, vediamo quanti altri sono portati a questa condizione.

mercoledì 20 gennaio 2016

In quanto Donna, in quanto Ebrea

L'Egitto revoca la cittadinanza ad una donna, ebrea (a sua insaputa), perché si è arruolata all'IDF dopo essere stata brutalmente cacciata via dal paese natio. L'Egitto, per l'appunto!


Nata (e cresciuta) come Rouleen Abdullah ad Alessandria d'Egitto, Dina Ovadia non sapeva nemmeno di essere ebrea fino all'età di 15 anni.

Il primo ministro egiziano Sherif Ismail ha deciso di revocare la cittadinanza egiziana a Dina di 22 anni, perché quando si è dovuta trasferire in Israele non per libera scelta, si è poi arruolata all'IDF.
 
"Il mio nome era Rouleen Abdullah, e sono andata in una scuola musulmana", ha raccontato.
"Quando avevo 15 anni, è accaduto un episodio che ha trasformato la mia vita. Ero a casa con mia madre e i miei fratelli, e tutto ad un tratto dei teppisti barbuti hanno fatto irruzione nel nostro appartamento. Er
ano salafiti, musulmani radicali. Hanno sparato in aria e ci hanno avvertiti di lasciare immediatamente l'Egitto. In tutto il trambusto li ho sentiti chiamare il nostro appartamento 'Bayt al-Yahud' (casa di ebrei in arabo) e non capivo di cosa stessero parlando. Solo dopo essere usciti da casa nostra, mio nonno ci ha detto che eravamo ebrei. E' stato difficile per me comprendere questo, perché a scuola ci hanno insegnato ad odiare gli ebrei."

La famiglia ha lasciato l'Egitto in fretta e ha trovato una casa a Gerusalemme.
Ovadia si è quindi arruolata nell'esercito israeliano ed ha servito in un'unità dell'IDF.

In un video che ha girato, ha raccontato la sua storia.

"Il mio sogno più grande è quello di visitare l'Egitto e indossare l'uniforme raccontando la mia verità su Israele, e dichiarare: Io sono ebrea, e sono fiera di esserlo".

Il video di Ovadia ha causato indignazione al Cairo, e il suo culmine è arrivato lunedì, quando il noto personaggio televisivo Ahmed Moussa ha attaccato "il paese degli assassini sionisti", e ha rivelato che il primo ministro egiziano ha deciso di revocare la cittadinanza di Ovadia.

"Questa è la prima volta nella storia che una donna egiziana serve nell'esercito di occupazione", ha detto Moussa.

"E' scioccante, è un colpo basso, ma io non voglio abbassarmi al loro livello", ha detto lunedì Dina. "Per quanto mi riguarda, dovreb
bero sapere che sono prima di tutto un'Ebrea orgogliosa e un'israeliana, e solo dopo un'egiziana."

domenica 17 gennaio 2016

Strage di Fiumicino, il terrore 30 anni prima di Parigi


Il 27 dicembre 1985 l'assalto all'aeroporto di un gruppo di terroristi palestinesi. Morirono sedici persone. 

di Luca Laviola




Doveva finire come l'11 Settembre a New York - ma 16 anni prima - con un aereo a schiantarsi su Tel Aviv. Invece fu la seconda strage dell'aeroporto di Fiumicino, con modalità che ricordano quella di Parigi a novembre. Era il 27 dicembre 1985 (30 anni fa ): un gruppo di terroristi palestinesi assaltò con bombe a mano e kalashnikov i banchi della compagnia israeliana El Al e della statunitense Twa, sparando sulla gente in fila o al bar.
 Nello scontro a fuoco con i poliziotti e la sicurezza israeliana morirono 16 persone: 12 passeggeri, 3 terroristi e un addetto israeliano; 80 i feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che indagò, il commando doveva prendere un aereo e farlo precipitare su Israele. Come avrebbero poi fatto nel 2001 i kamikaze di Osama Bin Laden in America. Ma i terroristi furono scoperti e scatenarono l'apocalisse in aeroporto. "Sapevamo che nessuno di noi sarebbe uscito vivo", ha detto anni fa Ibrahim Khaled, l'unico dei quattro a essere catturato. Condannato a 30 anni, ha collaborato, chiesto perdono e di recente è tornato libero.

Il massacro dell''85 arrivò 12 anni dopo quello del 17 dicembre 1973, sempre a Fiumicino e da parte di arabi armati, con 34 vittime e modalità ancora più cruente: due bombe incendiarie gettate dentro un aereo pieno fermo sulla pista. A seguito di quella strage Aldo Moro avrebbe stretto un accordo con i gruppi palestinesi, che si impegnavano a non compiere azioni in Italia a patto di poter transitare per il Paese con armi ed esplosivi. Ma l'intesa segreta voluta dal ministro degli Esteri democristiano sarebbe emersa solo molti anni dopo. 

Il mandante dell'attentato dell'85 era Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata a cui si era deciso il leader dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat.

Condannato all'ergastolo in contumacia, Abu Nidal è stato ucciso nel 2002 a Bagdad. Il commando arrivò a Roma un mese prima, in un periodo in cui stava saltando il cosiddetto 'Lodo Moro' (lo statista Dc era stato ucciso nel '78), che aveva risparmiato per 12 anni attentati palestinesi all'Italia. In poche settimane, un colpo di bazooka sull'ambasciata Usa, una bomba al Cafè de Paris in via Veneto, un'altra alla compagnia British Airways. Ad ottobre il dirottamento della nave Achille Lauro e l'uccisione di un passeggero americano sulla sedia a rotelle, Leon Klinghoffer.

E si arriva al 27 dicembre 1985. Sono le 9.05 quando i quattro, che si trovano vicini ai check-in El Al e Twa, vengono individuati dalla security israeliana - probabilmente corpi speciali - e scoppia la sparatoria. Un minuto di terrore, i palestinesi mirano ai passeggeri in fila. Tra le vittime italiani, statunitensi, messicani, greci e un algerino. Tre terroristi vengono uccisi. Khaled, 18/enne, viene catturato.
In simultanea a Vienna un altro gruppo attacca l'aeroporto, uccide 3 persone, decine i feriti. Due fedayn vengono presi, uno muore. 

L'ammiraglio Fulvio Martini, nell'85 capo del Sismi (intelligence militare), ha scritto che dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato in Italia. Il 19 i servizi informarono che sarebbe avvenuto tra il 25 e il 31 dicembre a Fiumicino. Gli israeliani, scrive Martini, misero tiratori scelti a difesa della postazione El Al. Furono loro i primi a reagire. Le forze dell'ordine italiane erano impreparate. Nel 1992 i capi della sicurezza di Fiumicino sono stati assolti. 

Il 17 dicembre '73 era andata perfino peggio: un gruppo di terroristi arabi arrivato dalla Spagna in aereo con le armi nei bagagli a mano gettò bombe al fosforo dentro un Boeing Pan Am sulla pista, uccidendo 30 persone. Quindi dirottò un aereo su Atene, altri morti prima di arrendersi in Kuwait. Un massacro quasi dimenticato. Stragi di civili, come quelle dell'Isis oggi.

(ANSA, 20 dicembre 2015) 

http://www.ilvangelo-israele.it/z-edipi-odio.html

giovedì 14 gennaio 2016

A Colonia? Il sì (ideale) delle femministe (le mie riflessioni su questo articolo)


Azz! (esclamo con sarcasmo)
E ora vediamo cosa c'è da esultare per questa fine-silenzio delle "femministe" (italiane).
(oh ma, perché tra virgolette la parola "femministe"? perché quelle vere -e anche un po' incazzate- da un bel pezzo le ho perse di vista, tra questi silenzi, queste mille polemiche, queste infinite meline del menga, questi ragionamenti "intellettualoidi" che nella pratica non aiutano proprio nessuno...) 
 
 

l'articolo è di Giusi Fasano e Luisa Pronzato, pubblicato su 27esimaora.corriere.it
 
Direzione Colonia, promettono quasi tutte. Andare perché serve farsi sentire. Perché è tornata l’ora di riprendersi la piazza. Per dare più forza a libertà ancora fragili. E senza temere strumentalizzazioni.

E perché solo a Colonia, quando queste violazioni sono accadute anche in altri Paesi dell'Europa? Cos'è?! la città simbolo? E a cosa serve farsi sentire per un giorno soltanto? A riprendersi la piazza? Ma veramente fate sul serio?!?!
 
Ma chi sta davvero andando al carnevale renano del 4 febbraio?
«Ci organizzeremo», «cercherò di esserci», «magari ci accordiamo per andarci in macchina» sono le risposte di chi annuncia di voler partecipare.
Il passaparola ha scavalcato confini politici e differenze di posizione e per una volta la risposta della variegata galassia femminista italiana sembra compatta: andare a Colonia, al momento luogo ideale per mostrare al mondo che le donne sanno e vogliono difendere le libertà conquistate.

Per come la pensa questa femminista-nella-variegata-galassia-femminista (non dico italiana perché mi sento cittadina del mondo) non vedo Colonia come il luogo ideale per dimostrare di voler difendere le libertà conquistate. (non ne farei la città-simbolo)
Per come la vedo, dovevamo esserci e dimostrare qui e da subito! e avremmo anche dovuto non fermarci al raduno-dimostrazione di un giorno (che come sappiamo bene non c'è neanche stato, non ancora, né da vicino né da lontano. Niente manifestazione di solidarietà!).
Per come la vedo, dovevamo fare rete nell'immediato (vabbeh, diciamo che non è troppo tardi) e andare avanti ad oltranza con iniziative pratiche per "prenderci la piazza" (e non RI-prenderci, perché considerato quanto accade tutti giorni in tutti i luoghi del mondo, la piazza ce l'hanno sfilata da sotto i piedi. A tutte. Così è, per ogni diritto leso, da una parte all'altra del globo).

Tutte alla Weiberfastnacht, la giornata femminile del Carnevale: per chiedere e regalare un bacio ai passanti, come vuole la tradizione, ma soprattutto per ristabilire fra la violenza e il corpo delle donne quella distanza che i fatti di Capodanno hanno pericolosamente accorciato. Ma per ora sono dichiarazioni d’intenti, dicevamo, mentre le femministe tedesche tacciono e in Italia, per quanto la parola d’ordine sembrerebbe «partecipare», in realtà nessuno si è ancora organizzato per gli spostamenti e le modalità di adesione.
Invita alla trasferta tedesca una femminista storica come Lea Melandri:
«È chiaro che in questo caso c’è una componente che riguarda i migranti e la loro integrazione ma facciamoci caso, ancora una volta l’odio si manifesta contro il corpo delle donne, originaria forma di dominio che riguarda la relazione fra i sessi. Io dico: andare a Colonia, sì, ma manifestiamo anche in Italia. Non lasciamo che dopo tutto questo si seppellisca di nuovo la questione femminile».

Embeh cara Lea, non credo proprio che questo c'entri con l'integrazione dei migranti (sono tanti ad essere integrati), qui c'entra il terrorismo. Quanto è accaduto, è stato -chiamiamolo per nome e cognome- un attacco terroristico rivolto contro le donne. E non è la prima volta che accade! (puoi chiederlo alle donne yazide tanto per... ma non solo).
E invece per quanto riguarda la "questione femminile" che secondo te rischia di essere "seppellita di nuovo" ... qui di seppellimenti ci sono solo quelli delle donne che continuano ad essere uccise e violate tutti i giorni in ogni parte del mondo. E finché ci sarà ancora un solo luogo in cui il diritto di essere donna-persona non viene rispettato, ci dobbiamo sentire tutte parte lesa. Coesione!

Cristina Comencini, di «Se Non Ora Quando – Libere», non ha dubbi:
«Bisogna andare tutti quanti e vorrei maschi che venissero a dimostrare di essere illuminati. Per le donne all’ordine del giorno c’è la libertà. Punto».
Pensando al 4 febbraio di Colonia, dice, «mi sono ricordata di un convegno di femministe a Paestum negli anni Settanta. Gli uomini non ci volevano e si fecero trovare lungo i muri con i pantaloni tirati giù. Siamo andate avanti lo stesso, senza guardarli, e abbiamo vinto noi».

Una grande vittoria duratura, Cristina, complimenti per l'audacia dimostrata in passato! Tuttavia i risultati si vedono tutti i giorni in ogni luogo d'Italia. E si vedono anche nelle esemplari punizioni che la giustizia dello stivale propina agli stupratori e assassini nostrani. Non ti accorgi che anche la nostra libertà di scelta e partecipazione è compromessa? Ci siamo arenate! Ci siamo assopite sulle conquiste fatte, che ora ci stanno sfilando una ad una.

«Se Non Ora Quando – Factory» ritiene fondamentale la mobilitazione di donne uomini.
«Prima di andare in Germania dovremmo anche interrogarci sul machismo che esiste in tutte le culture, non soltanto di quella islamica» premette Loredana Taddei. Che aggiunge: «Vorrei far notare che mentre discutiamo di Colonia da noi hanno ammazzato cinque donne…».

Perciò vorrei farti notare cara Loredana, che già per le nostre battaglie nazionali ci siamo bloccate, ci siamo appisolate sulle chiacchiere che si fanno a iosa, che si sentono e leggono a dismisura (ma le parole non fanno rumore!), mentre invece sul da farsi nulla accade: né per quanto riguarda l'educazione a scuola, né per quanto riguarda le pubblicità sessiste, né per quanto riguarda i programmi proposti dalla tv ormai completamente spazzatura, che invece potrebbe fare molto per disperdere il germe della violenza e della supremazia del patriarcato. Chi invece fa sono quelle realtà autogestite che lavorano sul campo e a cui le donne possono rivolgersi direttamente (ma questo è un altro capitolo ... non voglio arrivare a parlare pure dell'emendamento Giuliani).
 
La scrittrice italiana Lorella Zanardo, autrice del documentario Il corpo delle donne , è per la giornata di Colonia, «assolutamente».
«E basta temere le strumentalizzazioni, per favore. Se siamo forti e determinate nessuno potrà mettere bandiere sulla nostra testa. C’è il rischio certo, ma io sono molto attenta e molto brava a non farmi strumentalizzare, facciamolo tutte. Sarebbe più pericoloso chinare la testa».

(clic: mi piace) E con te Lorella, mi trovo a concordare con quanto affermi. Semplicemente d'accordo, tranne che "per la giornata di Colonia" in quanto dovrebbe essere "la giornata dell'Europa" considerato che si è voluto colpire le donne europee in diversi paesi (non solo in Germania). 
Un luogo vale l'altro, a questo punto. E allora perché non farlo qui come anche lì? E inoltre, un giorno soltanto (mi ripeto) a cosa serve? Abbiamo la necessità di essere forti, determinate, unite e specialmente costanti nel tempo.

L’Unione Donne Italiane è invece così convinta della giornata tedesca del 4 febbraio che per chi non potrà permettersi la trasferta sta pensando di organizzare in parallelo il 4 febbraio italiano. Vittoria Tola dice che per l’occasione si può rispolverare un vecchio slogan: «La notte ci piace, vogliamo uscire in pace».

(clic: mi piace) Ma comunque abbiamo la necessità di essere forti, determinate, unite e specialmente costanti nel tempo in tutto questo, anche per poter ottenere in modo permanente di poter 'uscire in pace'.

«Sarà un terreno scivoloso e pericoloso perché ci sarà chi vorrà usare il 4 febbraio contro gli islamici, indistintamente. Ma noi ci distingueremo dalle tendenze xenofobe. Vogliamo esserci e ci saremo» annunciano le dirigenti nazionali di Dire (Donne in rete contro la violenza) con le parole di Lella Palladino.

(clic: mi piace) Infatti non si tratta di criminalizzare l’Islam, né tutti gli immigrati, bensì di capire, segnando il confine tra l’accoglienza e l’abuso, tra l’integrazione e l’arroganza.

«Aderiamo ma sia chiaro che prendiamo le distanze dalle dichiarazioni razziste» tengono a precisare anche Barbara Mapelli e Laura Quadriole, Casa delle donne di Milano,

(clic: mi piace) E così deve essere. Più che giusto prendere le distanze dalle dichiarazioni razziste, poiché c'è differenza tra criminale e immigrato. Non ci piove!

mentre Marina Cosi (associazione Giulia) e Daniela Brancati (premio immagine amiche dell’Udi) parlano a titolo personale anticipando un’adesione «necessaria» per ribadire una volta di più la «libertà di camminare per strada e andare in discoteca senza rischiare nulla» o il fatto che «non conta essere di destra o di sinistra perché la libertà e la verità fanno bene a tutti».

(clic: mi piace) Ma comunque sia "abbiamo necessità di essere forti, determinate, unite e specialmente costanti nel tempo in tutto questo, per poter ottenere in modo permanente 'la libertà di camminare per strada e andare in discoteca senza rischiare nulla'."

Giorgia Serughetti è una voce giovane che si fa sentire dal blog delle ragazze di Femministerie  Per dire che anche loro accolgono l’idea della manifestazione di Colonia lanciata da Maria Latella, «ma a una condizione: che non sia la manifestazione di donne “occidentali” contro una cultura “altra”, ma un momento di alleanza tra donne di ogni cultura e religione, migranti e native, con velo, senza velo».

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A questo punto, non voglio parlare dell'emendamento Giuliani su cui stenderei una pesante coltre pietosa (ma rimando comunque all'AGGIORNAMENTO ORE 15 DEL 17 DICEMBRE che comunica quanto segue: "alcuni firmatari dell’emendamento Giuliani sarebbero intenzionati a fare marcia indietro, avendo compreso di aver sottoscritto una proposta sbagliata".
E non voglio parlare neanche delle falle del sistema anti tratta italiano (dove stenderei un'altra pesante coltre pietosa), però vi posto lo stesso l'informazione cosicché se avrete voglia di rinfrescarvi le idee poi ne possiamo pure parlare di fare chiarezza sul da farsi, sul risvegliarsi, sull'essere forti, coese, coerenti...
Ma bensì suggerisco la lettura dell'articolo di Marcello Foa
"Nelle piazze tedesche è stato praticato il Taharrush, il “gioco” dello stupro e non è una supposizione giornalistica ma la conclusione a cui è giunta la Polizia federale tedesca, che ora è molto preoccupata perché teme il ripetersi di questi episodi." (...) "Nessuno pensa che tutti gli islamici pratichino il Taharrush. Al contrario: nel Maghreb le autorità arabe e la maggior parte degli Imam condannano e perseguono il comportamento disumano compiuto da piccole minoranze".