venerdì 13 febbraio 2015

Tutte le bugie di Assad


Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/02/2015, a pag. 3, con il titolo "Notizie dal fronte delle 'bambinate'. Tutte le bugie di Assad", l'analisi di Paola Peduzzi.


Bashar al Assad
La rivolta in Siria è iniziata l’11 marzo del 2011, quasi quattro anni fa, una protesta come quelle che, allora, erano piuttosto frequenti in medio oriente. Era la Primavera araba e se adesso l’espressione è diventata quasi impronunciabile – se non ridicolizzata – ciò non toglie che fosse invero rivoluzionaria. Era l’effetto domino della democrazia di cui tanto si era discusso negli anni della Casa Bianca di Bush, le piazze che dicono no ai loro dittatori, che chiedono di mangiare, di lavorare, di essere più libere.
In Siria quelle prime piazze erano piene e pacifiche, la prima in assoluto fu quella di Deraa, un centro certo non urbano né cosmopolita: si ribellava all’arresto e al maltrattamento di 15 ragazzini colpevoli di aver disegnato dei graffiti contro il regime della famiglia Assad. E’ difficile oggi dopo quattro anni ricordare lo spirito di allora, perché è andato perduto in mezzo alle contorsioni della diplomazia internazionale e alla guerra intramusulmana che si è scatenata. 
L'antico sport dei tiranni del Medio Oriente, l'Iran degli ayatollah e la Siria di Assad
Sul quotidiano online al Monitor di recente è uscito un dispaccio su Aleppo. Quando è arrivata la neve, a gennaio, i bambini sono corsi per le strade, guardavano i fiocchi cadere, prendevano la neve, la assaggiavano, la tiravano. Pensavano che sarebbe stato divertente, un diversivo in quattro anni di guerra, le scuole chiuse, vacanza inaspettata, se si può immaginare qualcosa che assomigli a una vacanza, in una città sotto costante attacco aereo. Poi il fascino di tutto quel bianco è diventato soltanto freddo. Non c’è elettricità, non c’è acqua, non c’è combustibile, non c’è gas, non c’è riscaldamento. Non ci sono i cappotti o i maglioni, a volte nemmeno da mangiare.
E mentre i giornali internazionali si riempivano – riempivano si fa per dire, di certa ferocia si parla sempre meno – di titoli sulla “guerra di Aleppo”, “lo spirito della gente si è spezzato, così come quello della città”. Il popolo siriano è spezzato. Duecentodiecimila morti, tre milioni di rifugiati negli stati confinanti, un terzo dei 22 milioni di siriani che cerca di sfuggire ai combattimenti trovando riparo dove riesce, restando nel proprio paese, perché non può andarsene. E poiché la ferocia di una dittatura non sta soltanto nel numero di bombe e di torture che utilizza – in questo caso comunque un numero enorme – ai siriani tocca anche sentire il proprio presidente “democraticamente eletto” che scrive la sua storia, e quella storia diventa “una verità con cui confrontarsi”. 

Nell’intervista rilasciata alla Bbc questa settimana Bashar el Assad racconta la sua versione dei fatti e – contro ogni prova portata al cospetto delle cancellerie internazionali da persone che hanno visto e ascoltato testimoni – nega ogni sua responsabilità. Dice anche che dorme la notte, sprezzante, certo qualcosa ogni tanto lo preoccupa, lo tiene sveglio, “a volte il lavoro, a volte le questioni personali. La vita”, come ognuno di noi, “ogni cosa che può influenzare qualsiasi altro uomo, sono un uomo, sono influenzato dagli stessi fattori”. E mai queste parole – la vita, l’essere umano – sono suonate tanto stonate come sulla bocca di Assad.
Tutto quel che si dice della guerra civile in Siria, tutti i resoconti che arrivano, drammatici, dal fronte dei ribelli (che sarà pure diviso, ma esiste), diventa nelle parole di Assad una “childish story”, un racconto infantile, puerile. Una bambinata. A cominciare dall’inizio, quello stesso inizio che noi occidentali facciamo fatica a ricordare perché la logica banale secondo cui “la Siria è complicata” ci ha assaliti e lasciati inermi: “Dobbiamo parlare dei fatti – dice Assad – Fin dall’inizio le dimostrazioni non erano pacifiche. Alcuni volevano la democrazia, è vero, ma non era generalmente così. Questo è il primo fatto. Secondo: stiamo parlando di 140 mila manifestanti, il numero più alto raggiunto in un solo giorno in Siria. Diciamo pure che fosse un milione di persone, ammettiamo che sto abbassando il numero. Non lo sto facendo, ma diciamolo. Diciamo che era un milione. Un milione su 24 milioni di siriani non è niente”. 

Così comincia la ricostruzione di Assad: la Siria è stata messa sotto attacco da una minoranza terrorista, i moderati non sono mai esistiti, “lo ha detto lo stesso Obama che era una fantasia. Era un sogno”. E se pensate che questa sia la beffa più grande, che il dittatore siriano usi le parole del leader del mondo libero per ridisegnare la sua versione dei fatti, è perché non avete sentito ancora il resto. Il governo di Damasco ha dovuto reagire, “combattendo il terrorismo – dice – difendendo i civili, noi stiamo difendendo i civili, e dialogando. Se fosse vero che siamo noi che stiamo uccidendo il nostro popolo, come avremmo potuto sopravvivere per quattro anni, con tutta questa gente contro di noi, l’occidente, altri paesi nella regione – e io avrei passato quattro anni, al potere, con l’esercito e le istituzioni, senza consenso pubblico? E’ impossibile, questo è mentalmente inaccettabile”. 

In realtà è la definizione stessa di dittatura: mantengo il controllo con la forza, la brutalità, il terrore. Ma il consenso politico è spiegato dal fatto, dice Assad, che il suo regime sta difendendo il popolo, e il popolo sta con lui. E tutti i morti, gli attacchi con le spietate “barrel bomb” testimoniate da giornalisti, Human Right Watch, le Nazioni Unite, gli Scud, gli attacchi chimici sotterrati nella memoria dal nostro cosiddetto “realismo”, le bombe sulle scuole, la fame, arma letale per piegare anche i più vigorosi?
Niente, bambinate. “Ancora una volta – dice Assad – Se uno che ha contro il suo stesso popolo e ha contro i poteri della regione e ha contro i poteri ancora più grandi, tutto l’occidente, sopravvive, come fa a farlo? Se uccidi i siriani, loro ti sostengono o ti si oppongono? Se hai il consenso pubblico, vuol dire che stai difendendo il tuo popolo. Se lo uccidi, si rivolterà. E’ logica, senso comune”. Lo stesso senso comune per cui “l’esercito usa bombe, missili e proiettili. Non ho mai sentito parlare di bombe con i barili o con le pentole”. Il giornalista della Bbc insiste, ci sono i testimoni!, ma niente: “Sono chiamate bombe. Abbiamo bombe, missili e proiettili”. 

Lo stesso vale per gli agenti chimici, non solo il sarin utilizzato e testimoniato tra il 2012 e il 2013 (Obama e il suo segretario di stato John Kerry erano inorriditi dall’“atrocità morale” dei bambini che rigurgitavano saliva mista a veleno, e morivano: stavano per fare la guerra) ma anche il cloro, comprovato dalle organizzazioni internazionali (il giornalista del Foglio Daniele Raineri ha scattato delle foto in Siria che sono state riprese, come prove, da molti media, il reportage è stato pubblicato il 22 aprile 2014): mai usato. “Il cloro esiste in ogni fabbrica, in ogni casa in Siria – dice Assad – e ovunque nel mondo, non è un materiale militare”. Lo può diventare però, “certo, tutto può essere militarizzato”, risponde il rais. “Se usi il gas come arma di distruzione di massa – continua – ci sono migliaia se non centinaia di migliaia di vittime in poche ore. Non è quel che è a capitato in Siria. E poi, tutto quel che dobbiamo fare, lo possiamo fare con le armi convenzionali” – e quest’ultima è forse l’unica cosa reale che Assad ha detto: puoi sterminare il tuo popolo a suon di bombe. E’ che il regime di Damasco ne usa anche altre, di armi, e la strategia, soprattutto con gli agenti chimici, è di usarne in quantità non eccessive e non di continuo, per poter poi dire che, appunto, non ci sono stati migliaia di morti in poche ore. 

E anche le altre “armi indiscriminate”, cioè le bombe cariche di chiodi che colpiscono ovunque, non esistono, ribadisce Assad, “quando spari, hai un obiettivo, e questo obiettivo sono i terroristi, e spariamo per proteggere i civili. Se stiamo parlando delle vittime, be’ certo, è una guerra. Non c’è guerra senza vittime”. Nella notte tra lunedì e martedì a Douma, vicino alla famigerata Ghouta che nel 2013 fu attaccata con sostanze chimiche, le forze aeree di Assad hanno portato a termine una serie di bombardamenti, e tutti i testimoni dicono che si trattava di “barrel bomb”. La campagna brutale era iniziata già la settimana scorsa, ci sono almeno 200 morti, nel giro di qualche giorno – è stato colpito anche un mercato, soltanto lì ci sono stati 40 morti, normalmente parleremmo di strage. 

Tutta l’area attorno a Damasco è sotto i bombardamenti da mesi – soltanto nelle scorse ore il Syrian Network for Human Rights ha raccolto 35 filmati e 50 fotografie degli attacchi in corso – c’è stata una piccola tregua quando è iniziata la campagna internazionale contro lo Stato islamico: Assad temeva che, una volta entrati in Siria, gli americani avrebbero fatto quel che da sempre dicevano di voler fare, cioè cacciarlo. Non appena si è accorto – e la consapevolezza è stata piuttosto rapida, oltre che corretta – di non essere in pericolo, anzi di potersi addirittura accreditare come un alleato di fatto nella lotta al jihadismo dello Stato islamico, Assad è tornato al suo business as usual. I razzi, i missili, i proiettili, come direbbe lui, e ovviamente le “barrel bomb”, a meno che non si creda davvero che tutte le prove raccolte in quattro anni sulla ferocia del regime siano costruite ad arte – un po’ come credere a Vladimir Putin quando dice che i separatisti nell’est dell’Ucraina sono fuori dal suo controllo. 

Oggi Assad è tranquillo – a parte i dilemmi umani che tutti abbiamo, s’intende – perché non deve temere nulla, né per il suo futuro, né per i suoi aerei. Non c’è un coordinamento diretto con la coalizione guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato islamico – “loro non parlano con nessuno, se non con chi è un loro pupazzo, e fanno facilmente a meno della legge internazionale, che riguarda ora la nostra sovranità, quindi loro non parlano con noi, noi non parliamo con loro” – ma con “terze parti” sì. Gli iracheni soprattutto, ma anche altri, “non è un dialogo, sono informazioni”, cioè loro dicono qualcosa a Damasco. Ecco spiegata la collaborazione che si è venuta a creare, in Siria e anche in Iraq, tra il regime siriano e i suoi alleati – l’Iran e Hezbollah – e i componenti della coalizione anti Stato islamico. 

Il nemico comune e riconosciuto contro il quale Obama chiede più poteri di guerra va combattuto insieme, e ad Assad non pare vero di poterlo fare: è dalla seconda conferenza di Ginevra, nel gennaio del 2014, che i russi, altri alleati di Assad, suggeriscono a Damasco di buttarla sul terrorismo. Il consiglio si è rivelato utilissimo: stiamo tutti combattendo contro al Baghdadi, certo non siamo proprio simili, certo se si potessero scegliere, i propri compagni di avventura, difficilmente si andrebbe accompagnati in questo modo, ma turarsi il naso può essere utile, se in gioco c’è tutto il tuo regno. Poiché nella strategia verso la Siria è andato tutto storto – forse perché non ce n’è mai stata una – ora ci si ritrova nella condizione di aspettare con terrore “lo scontro finale” ad Aleppo, mentre il regime di Damasco piano piano sta cercando di riconquistare il sud, a cominciare da quella Deraa da cui tutto era iniziato.
Soltanto che a sud ci sono anche le colline del Golan e quindi Israele. L’esercito siriano ha annunciato “una vasta operazione” nell’area sotto la capitale per combattere “i terroristi di al Nusra”, il fronte legato ad al Qaida, che secondo Damasco occupa la zona. A guidare l’azione ci sono gli uomini di Hezbollah, coordinati dalle Guardie rivoluzionarie iraniane – e la loro presenza è per una volta inconfutabile: un pasdaran è rimasto ucciso proprio sul Golan da un attacco dell’aviazione israeliana. Quindi se l’operazione non funziona, resta al Qaida a un passo da Israele; se funziona arrivano Hezbollah e l’Iran. 

A furia di non prendere mai una decisione, a preferire uno status quo umanitariamente e strategicamente inaccettabile, si è finiti per mettere in pericolo esistenziale l’unico solido alleato della regione: Gerusalemme. Nonostante la crisi siriana sia diventata la sorgente di effetti collaterali mortali, Assad resta un interlocutore, molti azzardano ancora la definizione di “elemento di stabilità”. Gli americani non parlano più di “Assad must go”, l’inviato dell’Onu in Siria, Staffan de Mistura, ha appena incontrato il rais siriano per negoziare un congelamento dello scontro ad Aleppo, a breve ci sarà una nuova iniziativa russa per la creazione di un governo di unità nazionale, in cui però è compreso anche Assad. E come già è accaduto in passato con l’Iran, a ogni mano tesa – più o meno direttamente – dell’occidente, corrisponde un rifiuto.
Assad dice che i veri terroristi sono gli americani (e i sauditi), e quando il giornalista gli chiede se lo scambio di informazioni è biunivoco, l’occidente non vi attacca ma voi lo aiutate con altra intelligence, il rais siriano può rispondere impertinente, come uno che sa di non essere in pericolo: “No”.
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lunedì 9 febbraio 2015

Shoah, ecco l'anno zero di Heidegger

Dopo i «Quaderni neri». La pubblicazione dei testi dove lo sterminio degli ebrei è definito un «autoannientamento» segna una svolta Che rilancia la necessità di interrogare a fondo il pensiero del filosofo, senza dividersi tra fan e avversari. In Germania si resta poco disposti a parlare pubblicamente di Auschwitz.
 
di Donatella Di Cesare

 (dal Corriere della Sera, 9 febbraio 2015)


Shoah, ecco l'anno zero di Heidegger

Dopo i «Quaderni neri». La pubblicazione dei testi dove lo sterminio degli ebrei è definito un «autoannientamento» segna una svolta Che rilancia la necessità di interrogare a fondo il pensiero del filosofo, senza dividersi tra fan e avversari. In Germania si resta poco disposti a parlare pubblicamente di Auschwitz 

di Donatella Di Cesare *
(Il Corriere della Sera, 9 febbraio 2015)
Qualcuno definisce già il 2014 l'anno zero di Heidegger. L'affermazione è azzardata. Ma certo l'uscita dei Quaderni neri segna nel confronto con il pensiero del filosofo tedesco una svolta la cui portata e i cui esiti non possono oggi essere previsti. Tanto più che la pubblicazione è ancora in corso e il prossimo volume, che va dal 1942 al 1948, è atteso in Germania ai primi di marzo. Proprio per questo è indispensabile evitare le reazioni emotive, i giudizi precipitosi e sommari. Per quanto sia estremamente difficile, occorre invece continuare a interrogarsi e, anzi, mantenere aperte le domande. Serve, insomma, l'esercizio della filosofia. 
D'altronde qui non si parla di un dettaglio biografico né di un «errore politico». In tal senso la questione è ben diversa da quella sollevata da Victor Farías e, anni più tardi, da Emmanuel Faye. I Quaderni neri sono testi scritti da Heidegger che ne aveva progettato la pubblicazione. E per di più sono testi strettamente connessi con la sua opera. Il nodo è filosofico. Dissento perciò dalla dichiarazione che ha rilasciato Gianni Vattimo all'«Ansa», perché se Heidegger cede alla metafisica nel definire gli ebrei e l'ebraismo — come io stessa ho indicato nel mio libro — quel che dice nei Quaderni neri non può essere derubricato a dottrina, da tenere separata dalla filosofia. Non sarà più possibile nel futuro, per qualsiasi studio critico, far finta che quest'opera non esista. 
Se oggi possiamo leggere i Quaderni neri è grazie anzitutto al lavoro editoriale di Peter Trawny e alle sue riflessioni contenute nel volume Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung (Heidegger e il mito del complotto ebraico), che sta per essere pubblicato da Klostermann nella terza edizione. Decisivo è stato il convegno Heidegger et tes «juifs» organizzato a Parigi, tra il 22 e il 25 gennaio scorso, da Joseh Cohen e da Raphael Zagury-Oriy, che sono riusciti nell'ardua impresa di far discutere filosofi molto diversi: da Peter Sloterdijk a Alain Finkielkraut, da Maurice Olender a Bernard-Henri Levy. Al di là dei singoli importanti contributi, è emersa l'esigenza di proseguire la discussione critica senza cadere in preclusioni o chiusure affrettate. 
Più frastagliato appare il panorama della filosofia tedesca, ancora profondamente segnata dalla rimozione del nazismo e meno disposta a parlare apertamente di Auschwitz e della «questione ebraica». Ma rifiutare d'improvviso Heidegger, come ha fatto di recente Günter Figal, dimettendosi dalla carica di presidente della Società Martin Heidegger, non vuol dire forse eludere il confronto con quel che è accaduto solo qualche decennio fa? 
Se nei Quaderni neri che sono stati pubblicati (i volumi 94-96 delle opere complete) è venuto alla luce, in tutta la sua rilevanza, l'antisemitismo metafisico, nei quaderni che stanno per uscire (ii volume 97) è cancellato per sempre il silenzio sulla Shoah. Nello sterminio — come ho sottolineato nell'articolo uscito ieri su «la Lettura» — Heidegger vede un autoannientamento degli ebrei. «Solo quando quel che è essenzialmente "ebraico", in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico, viene raggiunto il culmine dell'autoannientamento nella storia». In una delle sue lezioni talmudiche Emmanuel Lévinas, allievo di Heidegger a Friburgo, ha detto che si potrebbe perdonare «chi abbia parlato senza coscienza». Ma le cose stanno diversamente quando si tratta di un «geniale Rav», un maestro chiamato a un grande destino. «Si possono perdonare molti tedeschi, ma ci sono tedeschi a cui è difficile perdonare. È difficile perdonare Heidegger». Queste parole, che assumono ora un significato ancor più profondo, non esimono tuttavia dal compito di studiare attentamente le pagine di Heidegger e di guardare alla Shoah in una prospettiva inedita. Perché la Shoah non è solo una questione storica, ma è una questione filosofica che coinvolge direttamente la filosofia. Le responsabilità di una lunga tradizione di pensiero devono essere ancora accertate e discusse. Così come la storia dell'antisemitismo nella filosofia attende ancora di essere scritta. Si presume spesso di sapere che cosa sia l'antisemitismo, che cosa sia la Shoah. Soprattutto in Italia questo ha dato luogo a confusioni pericolose e a sterili polemiche, come quelle suscitate nel giorno della memoria. Certo che, come diceva già Primo Levi, ci sono state genocidi sia prima, sia dopo Auschwitz. 
Se i paragoni sono necessari, perché la Shoah fa parte della storia, occorre tuttavia guardare alle peculiarità di un annientamento che ancor oggi sfuggono. Nei campi di sterminio — che vanno distinti dai campi di concentramento o di lavoro — l'industria della morte lavorava giorno e notte per la «soluzione forale», cioè per eliminare il popolo ebraico dal pianeta. Le camere a gas sono state il luogo incancellabile di un progetto sistematico di «depurazione». 
Ma lo sterminio è stato senza precedenti anche perché non era mai avvenuto che si uccidesse in una catena di montaggio. Il processo di industrializzazione della morte, che assunse la precisione quasi rituale della tecnica, trovò nell'uso del gas un cambiamento di qualità. Le gassazioni su scala industriale hanno introdotto l'anonimato dei carnefici di fronte alle vittime senza nome e hanno consentito la frantumazione della responsabilità. Non è un caso che l'etica sia stata uno dei grandi temi dopo la Shoah. I principi che la filosofia ha ritenuto validi non hanno retto alla prova di Auschwitz, dove il limite etico ha perso ogni senso di fronte alla degradazione dell'umano, alla privazione della dignità, non solo della vita, ma persino della morte. Pensare dopo Auschwitz significa uscire da una sintassi autistica per avviarsi non verso una libertà astratta, bensì verso una liberazione che, come quella dell'esodo, si realizza ogni volta con l'altro. L'esodo è il passo in fuori compiuto da un sé consapevole di essere sempre preceduto dall'altro che lo interroga, a cui è chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria, ma perché è in quel volgersi che si costituisce come io, senza altra possibilità di scelta. E come l'altro precede il sé, così la responsabilità precede la libertà. Questa inversione del cammino è la sovversione ebraica che ha segnato la rottura nell'asse dell'Essere. Non è, dunque, neppure un caso che a rilanciare, nella seconda metà del Novecento, la questione della responsabilità siano stati i filosofi ebrei, da Hans Jonas a Hannah Arendt e a Günther Anders, da Emmanuel Lévinas a Jacques Derrida, tutti allievi diretti o indiretti di Heidegger. Come spiegarlo? E sarebbe immaginabile il loro contributo senza il suo pensiero? Queste domande restano aperte. Ma una precisazione è indispensabile. Leggere Heidegger, confrontarsi con le frasi inquietanti dei Quaderni neri, non significa aderire a quel che ha scritto. La filosofia non è — come alcuni credono — un match calcistico, la sfida di una squadra contro l'altra; non si riduce al pro e al contro. Chi filosofa sopporta la complessità e abita nel chiaroscuro della riflessione.

Qualcuno definisce già il 2014 l'anno zero di Heidegger. L'affermazione è azzardata. Ma certo l'uscita dei Quaderni neri segna nel confronto con il pensiero del filosofo tedesco una svolta la cui portata e i cui esiti non possono oggi essere previsti. Tanto più che la pubblicazione è ancora in corso e il prossimo volume, che va dal 1942 al 1948, è atteso in Germania ai primi di marzo. Proprio per questo è indispensabile evitare le reazioni emotive, i giudizi precipitosi e sommari. Per quanto sia estremamente difficile, occorre invece continuare a interrogarsi e, anzi, mantenere aperte le domande. Serve, insomma, l'esercizio della filosofia. 

D'altronde qui non si parla di un dettaglio biografico né di un «errore politico». In tal senso la questione è ben diversa da quella sollevata da Victor Farías e, anni più tardi, da Emmanuel Faye.
I Quaderni neri sono testi scritti da Heidegger che ne aveva progettato la pubblicazione. E per di più sono testi strettamente connessi con la sua opera. Il nodo è filosofico. Dissento perciò dalla dichiarazione che ha rilasciato Gianni Vattimo all'«Ansa», perché se Heidegger cede alla metafisica nel definire gli ebrei e l'ebraismo — come io stessa ho indicato nel mio libro — quel che dice nei Quaderni neri non può essere derubricato a dottrina, da tenere separata dalla filosofia. Non sarà più possibile nel futuro, per qualsiasi studio critico, far finta che quest'opera non esista. 

Se oggi possiamo leggere i Quaderni neri è grazie anzitutto al lavoro editoriale di Peter Trawny e alle sue riflessioni contenute nel volume Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung (Heidegger e il mito del complotto ebraico), che sta per essere pubblicato da Klostermann nella terza edizione.
Decisivo è stato il convegno Heidegger et tes «juifs» organizzato a Parigi, tra il 22 e il 25 gennaio scorso, da Joseh Cohen e da Raphael Zagury-Oriy, che sono riusciti nell'ardua impresa di far discutere filosofi molto diversi: da Peter Sloterdijk a Alain Finkielkraut, da Maurice Olender a Bernard-Henri Levy. Al di là dei singoli importanti contributi, è emersa l'esigenza di proseguire la discussione critica senza cadere in preclusioni o chiusure affrettate.

Più frastagliato appare il panorama della filosofia tedesca, ancora profondamente segnata dalla rimozione del nazismo e meno disposta a parlare apertamente di Auschwitz e della «questione ebraica». Ma rifiutare d'improvviso Heidegger, come ha fatto di recente Günter Figal, dimettendosi dalla carica di presidente della Società Martin Heidegger, non vuol dire forse eludere il confronto con quel che è accaduto solo qualche decennio fa? 

Se nei Quaderni neri che sono stati pubblicati (i volumi 94-96 delle opere complete) è venuto alla luce, in tutta la sua rilevanza, l'antisemitismo metafisico, nei quaderni che stanno per uscire (ii volume 97) è cancellato per sempre il silenzio sulla Shoah. Nello sterminio — come ho sottolineato nell'articolo uscito ieri su «la Lettura» — Heidegger vede un autoannientamento degli ebrei.

«Solo quando quel che è essenzialmente "ebraico", in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico, viene raggiunto il culmine dell'autoannientamento nella storia».

In una delle sue lezioni talmudiche Emmanuel Lévinas, allievo di Heidegger a Friburgo, ha detto che si potrebbe perdonare «chi abbia parlato senza coscienza». Ma le cose stanno diversamente quando si tratta di un «geniale Rav», un maestro chiamato a un grande destino.

«Si possono perdonare molti tedeschi, ma ci sono tedeschi a cui è difficile perdonare. È difficile perdonare Heidegger».

Queste parole, che assumono ora un significato ancor più profondo, non esimono tuttavia dal compito di studiare attentamente le pagine di Heidegger e di guardare alla Shoah in una prospettiva inedita. Perché la Shoah non è solo una questione storica, ma è una questione filosofica che coinvolge direttamente la filosofia. Le responsabilità di una lunga tradizione di pensiero devono essere ancora accertate e discusse. Così come la storia dell'antisemitismo nella filosofia attende ancora di essere scritta. 

Si presume spesso di sapere che cosa sia l'antisemitismo, che cosa sia la Shoah. Soprattutto in Italia questo ha dato luogo a confusioni pericolose e a sterili polemiche, come quelle suscitate nel giorno della memoria. Certo che, come diceva già Primo Levi, ci sono state genocidi sia prima, sia dopo Auschwitz.

Se i paragoni sono necessari, perché la Shoah fa parte della storia, occorre tuttavia guardare alle peculiarità di un annientamento che ancor oggi sfuggono. Nei campi di sterminio — che vanno distinti dai campi di concentramento o di lavoro — l'industria della morte lavorava giorno e notte per la «soluzione forale», cioè per eliminare il popolo ebraico dal pianeta. Le camere a gas sono state il luogo incancellabile di un progetto sistematico di «depurazione».
Ma lo sterminio è stato senza precedenti anche perché non era mai avvenuto che si uccidesse in una catena di montaggio. Il processo di industrializzazione della morte, che assunse la precisione quasi rituale della tecnica, trovò nell'uso del gas un cambiamento di qualità. Le gassazioni su scala industriale hanno introdotto l'anonimato dei carnefici di fronte alle vittime senza nome e hanno consentito la frantumazione della responsabilità. Non è un caso che l'etica sia stata uno dei grandi temi dopo la Shoah.

I principi che la filosofia ha ritenuto validi non hanno retto alla prova di Auschwitz, dove il limite etico ha perso ogni senso di fronte alla degradazione dell'umano, alla privazione della dignità, non solo della vita, ma persino della morte. Pensare dopo Auschwitz significa uscire da una sintassi autistica per avviarsi non verso una libertà astratta, bensì verso una liberazione che, come quella dell'esodo, si realizza ogni volta con l'altro.

L'esodo è il passo in fuori compiuto da un sé consapevole di essere sempre preceduto dall'altro che lo interroga, a cui è chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria, ma perché è in quel volgersi che si costituisce come io, senza altra possibilità di scelta. E come l'altro precede il sé, così la responsabilità precede la libertà. 
Questa inversione del cammino è la sovversione ebraica che ha segnato la rottura nell'asse dell'Essere. Non è, dunque, neppure un caso che a rilanciare, nella seconda metà del Novecento, la questione della responsabilità siano stati i filosofi ebrei, da Hans Jonas a Hannah Arendt e a Günther Anders, da Emmanuel Lévinas a Jacques Derrida, tutti allievi diretti o indiretti di Heidegger. Come spiegarlo? E sarebbe immaginabile il loro contributo senza il suo pensiero?

Queste domande restano aperte. Ma una precisazione è indispensabile. Leggere Heidegger, confrontarsi con le frasi inquietanti dei Quaderni neri, non significa aderire a quel che ha scritto. La filosofia non è — come alcuni credono — un match calcistico, la sfida di una squadra contro l'altra; non si riduce al pro e al contro. Chi filosofa sopporta la complessità e abita nel chiaroscuro della riflessione.

sabato 7 febbraio 2015

#NonLavoroGratisXexpo

"No al lavoro gratis per Expo". Frankie HiNrg rinuncia

La rinuncia autocritica di Frankie HiNrg a fare da testimonial per Expo 2015. postata sul suo profilo Facebook.

 "No al lavoro gratis per Expo". Frankie HiNrg rinuncia

Ho sbagliato e chiedo scusa.
Ho sbagliato a prestare la mia immagine come ambassador di Expo 2015, confidando nel fatto che l’evento avrebbe dato voce anche a quelle realtà che nel mondo combattono la sfida del cibo con tenacia ed ingegno e che a volte vengono sconfitti.
Purtroppo la loro voce praticamente non ci sarà.

La direzione che ha preso Expo è diversa da quella che (ingenuamente) avrei sperato, con reali tavoli di dibattito e non solo stand ultracostosi.
Il fatto che migliaia di ragazzi vengano fatti lavorare gratuitamente (ricevendo in cambio il privilegio di aver fatto un’esperienza…) a fronte del muro di miliardi che l’operazione genera è una cosa indegna per un Paese che parla di “impulso alla crescita”.

Gli appalti abbiamo visto a chi sono stati (anche) assegnati e con quali modalità.
Ndrangheta e compari già saltan fuori adesso, figuriamoci tra un po’…
Alla luce di tutto ciò ho chiesto di essere rimosso dall’elenco degli ambassador di Expo 2015.
Non voglio sostenere un’iniziativa che non mi rappresenta minimamente.

Sapevo che ci sarebbero state le multinazionali, ma che ci sarebbe stato spazio anche per “la via campesinha”, ed ho pensato che in un luogo di così alta densità di attenzione sul tema del cibo, con tutte le orecchie del mondo a disposizione, sarebbe stato utile rendere eloquente anche quella presenza.
Ma non sono Vandana Shiva e forse delle porcherie di Expo in Italia ora ne so più io di lei.

Fortunatamente esiste un’altra iniziativa, chiamata “Expo dei popoli”, che ha un manifesto e dei sostenitori in cui mi riconosco molto di più.
E’ un forum indipendente da Expo 2015: ulteriori informazioni le trovate qui -> http://expodeipopoli.it/

Mi scuso con quanti di voi si siano sentiti traditi da me per aver accettato quel ruolo.
Ho fatto un’intervista rispondendo a qualche domanda su Expo ed ho firmato con leggerezza una liberatoria senza rendermi troppo conto di cosa si trattasse.
Non ho preso un soldo per questa cosa (per alcuni rappresenta un’aggravante…), anche perchè non si viene pagati per una semplice intervista.
Qualche tempo dopo ho scoperto di essere diventato un ambassador, in compagnia (anche) di personalità illustri e stimate come Don Gino Rigoldi e la già citata Shiva.
Poi io e la mia attenzione siamo finiti altrove e le mie scuse sono anche per non essermi interessato attivamente della questione Expo, specie per esserne in qualche modo coinvolto ed ora volerne uscire.

Don Rigoldi mi ha raccontato di essere tra i promotori di una bella iniziativa, che va nella direzione del confronto e dell’accoglienza, ponendosi l’obiettivo di “portare un po’ d’anima” dentro quell’evento: darò tutto il supporto possibile al suo progetto, perché di Gino mi fido.

Grazie a tutti voi che, anche senza insultare, mi avete aperto gli occhi sulla questione.

Docenti Senza Frontiere Onlus

LA NOSTRA STORIA

17 settembre 2011 - Docenti Senza Frontiere Onlus, nasce all’interno dell’Istituto Comprensivo Aldeno Mattarello di Trento. L’idea di costituire un’associazione Nazionale che possa essere di supporto a realtà scolastiche svantaggiate sia nei nostri territori sia nei Paesi in via di Sviluppo nasce da un confronto aperto tra un gruppo di docenti coinvolti, con le proprie Scuole dal 2007, in progetti di Gemellaggio Internazionale. Un’associazione senza fini di lucro, che si rifà ai principi di solidarietà e mutualità, con lo scopo di diffondere i valori della finanza etica utilizzando gli strumenti dello “sviluppo sostenibile” per migliorare la vivibilità nei contesti scolastici. Lo scopo di questo progetto è di rendere disponibili competenze e sensibilità nei settori dell’educazione e della vita scolastica per poter contribuire a creare un’infrastruttura capace di supportare:
 
-  programmi di intervento sui grandi temi di interesse pubblico in riferimento al Diritto allo studio;
- altre associazioni già attive sui territori, fornendo progetti in ambito educativo;
- gemellaggi fra scuole e programmi di sostegno scolastico a distanza attraverso la cooperazione di comunità, strategia di fondo che dà la traccia del nostro intervento;

Con tale iniziativa si desidera dimostrare che i Docenti della Scuola Pubblica, sempre più spesso rimproverata, criticata, sacrificata e privata dei propri strumenti, sanno e vogliono interpretare le trasformazioni e i mutamenti sociali e intendono promuovere nuove soluzioni e nuove forme di comunicazione fra scuola e famiglia, fra scuola e alunni e fra scuola e territorio. Interessare e coinvolgere direttamente le famiglie, con finalità e obiettivi condivisi, è il principale traguardo a cui ambisce il nostro programma.

La scelta di proporre un negozio solidale è stata voluta per valorizzare un percorso di Finanza Etica bocciando fin da subito la ricerca di risorse attraverso la logica delle donazioni tramite SMS, strumento validissimo per le emergenze ma sempre più sfruttato e abusato da molte associazioni.

La cultura della sostenibilità è la chiave del futuro, insieme ad una cooperazione partecipata fondata in primo luogo sulla costruzione di relazioni che permettano ad entrambe le comunità in gioco di affrontare le sfide del presente guardandosi reciprocamente e reciprocamente aiutandosi ad individuare i punti di forza su cui far leva. Principi e valori come: condivisione, concertazione, competenze e sensibilità, consenso e visibilità, inclusione e pluralità, innovazione e pari dignità della cittadinanza attiva sono parte di un percorso da fare insieme, da condividere, un progetto che si rafforzerà grazie al contributo di tutti, sia docenti che genitori.

Attraverso il negozio solidale desideriamo raggiungere i seguenti obiettivi:

- presentare un servizio alle famiglie per favorire quel principio di autosostenibilità indicato nella nostra carta dei Principi;
-  proporre un ritorno alla sobrietà attraverso strumenti scolastici neutri, privi di personaggi televisivi e senza griffe. Riportare all’interno della scuola e della famiglia il valore della sobrietà e del bello anche senza acquisti firmati.
-  stimolare e favorire il mercato della Finanza Etica;
-  suggerire Prodotti con materiale riciclato, ecologici e sostenibili;
- proporre oggetti didattici dell’Artigianato Italiano e del mercato Equo Solidale;
- proporre articoli personalizzati dall’Associazione o da altre Scuole italiane per veicolare e trasmettere con nuove forme di comunicazione “Campagne di Sensibilizzazione ed Educative”
- destinare i ricavi al finanziamento dei progetti di solidarietà locale ed internazionali.

È un progetto aperto e rivolto a tutti i docenti delle Scuole italiane, chi desiderasse ricevere informazioni o volesse partecipare per la nascita dei gruppi regionali ci può contattare alla seguente e-mail

info@docentisenzafrontiere.org
Ogni Vostro consiglio è necessario e ben accolto!
Vi ringraziamo e ci auguriamo di saper corrispondere ed interpretare al meglio le Vostre aspettative.

la pagina su facebook
https://www.facebook.com/pages/Docenti-Senza-Frontiere/163745877012621
 

il sito web http://www.docentisenzafrontiere.org/it/


venerdì 6 febbraio 2015

Expo darà lavoro! (gratis)

Giorgio Cremaschi interviene su Expo. Sempre meglio, eh:
NOEXPO22
Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori?
Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cgil, Cisl, Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la Fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno un lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili.
Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si è era spesso pronunciata. Ma questi 800 lavoratori sottopagati sono comunque una élite rispetto a tutti gli altri. Che avranno un orario giornaliero obbligatorio e turni, pare bisettimanali, di lavoro, ma che lo faranno senza alcuna retribuzione. Essi saranno considerati volontari e come tali riceveranno solamente dei buoni pasto quotidiani, per non smentire il significato alimentare dell’evento. Nelle previsioni iniziali questi fortunati avrebbero dovuto essere 18.500, da qui il peana subito scattato sui 20.000 posti di lavoro creati dalla magia dell’Expo. Ora Invece pare che siano meno della metà, per la semplice ragione che lavorare all’Expo non solo non paga, ma costa. Immaginiamo un pendolare che debba accollarsi i costosissimi costi quotidiani del sistema ferroviario lombardo. O addirittura un giovane di un’altra regione che volesse fare questa esperienza a Milano. Per lavorare gratis bisogna godere di un buon reddito e non tutti ce l’hanno.

Eppure a tutto questo ci sarebbe stata una alternativa semplice semplice. Visto che Expo per sua natura è un evento a termine, coloro che la faranno funzionare avrebbero potuto essere assunti con il tradizionale contratto a termine. Lavori sei mesi? Sei pagato per quelli, sono solo, due settimane? Riceverai la tua quindicina. Perché non si è fatto così? Semplice perché in questo modo si sarebbe dovuto spendere molto di più in salari e questo non era compatibile con gli alti costi della fiera. Capisco che questo modo di ragionare possa essere considerato troppo rigido e ancorato a vecchi tabù. C’è un lavoro e si pretende anche un salario, allora si vogliono difendere vecchi privilegi direbbero gli araldi del lavoro flessibile.

#scioperiamo #expo #tav #crisi #fabbriche #scuole #autostrade #stazioni #ruoli#generi #scioperiamotutto verso il #1M pic.twitter.com/W6jh50kDxC
— MilanoSciopera (@MilanoSciopera) 12 Dicembre 2014
Quando l’accordo sul lavoro gratis è stato sottoscritto l’allora presidente del consiglio Enrico Letta disse, facendo eco al presidente della Confindustria Squinzi, che esso era un modello per il paese. La rottamazione renziana sempre rivolta alle nuove generazioni ha lasciato quella intesa intatta, così come hanno fatto Cgil, Cisl, Uil, nonostante le critiche a quel Jobs act che l’accordo Expo già anticipava. Tutte le forze politiche rappresentate in parlamento, escluso il Movimento 5 Stelle, sono consenzienti.
 Così l’Expo finirà per essere una vetrina di tutto ciò che non dovrebbe, ma che invece continua a dominare le scelte economiche e sociali del paese. L’Expo sarà la migliore rappresentazione dell’ipocrisia e del gattopardismo che governano la nostra crisi. Sotto lo slogan “Nutrire il pianeta” si lascerà a una multinazionale il compito di spiegare che l’acqua va gestita in ragione di mercato. Si farà l’apologia delle grandi opere senza riuscire neppure a nascondere la speculazione e non solo quella illegale, ma quella ancor più scandalosa sulle aree che è perfettamente consentita. Si lanceranno proclami sui giovani che capaci di operare nella globalizzazione, rimuovendo il fatto che lo faranno solo in cambio di una medaglietta che non varrà nemmeno come accreditamento per altri lavori precari. E ancora una volta tutto, ma proprio tutto sarà a carico del lavoro. In una fiera che si presenta come l’ultimo ballo Excelsior di una globalizzazione in piena crisi, l’Italia che guarda al passato cianciando di futuro troverà la sua vetrina. Che dovrebbe essere accesa proprio il primo Maggio, così trasformando la festa dell’emancipazione del lavoro nella celebrazione del suo ritorno allo stato servile. Ci sono movimenti e forze sindacali che dicono no a tutto questo e che già dalle prossime settimane si faranno sentire, per poi provare a restituire alla Festa del Lavoro il suo antico valore. Fanno benissimo.

Fonte: http://www.giuliocavalli.net/2015/02/05/expo-dar-lavoro-gratis/

Buone nuove sui figli di coppie non etero

Due mamme. Guaiana (Certi Diritti) e Magi (Radicali Italiani): Roma capitale indiscussa dei diritti
06/02/2015

"Roma ha finalmente trascritto l'atto di nascita di un bambino con due genitori dello stesso sesso, due mamme in questo caso. Era da tempo che auspicavamo una posizione chiara e con atti concreti in questo senso. Trascrivere le nascite di bambini di coppie omosessuali, che hanno contratto matrimonio in altri paesi, come figli di entrambi è un atto che garantisce il principio di tutela della genitorialità contenuta nella Costituzione italiana e nelle normative europee."
Così Riccardo Magi, consigliere comunale capitolino e presidente di Radicali Italiani, che per settimane ha seguito la questione aiutando Alexander Schuster, il legale della coppia, che collabora da tempo con l'Associazione Radicale Certi Diritti e con Famiglie Arcobaleno.

Solo poche settimane fa la Corte d'Appello di Torino aveva emesso un'ordinanza in cui si chiedeva agli uffici dello stato civile della città di provvedere, nell'interesse del figlio minore di due donne divorziate, alla trascrizione dell'atto di nascita.

"Registro delle unioni civili e trascrizione dell'atto di nascita: in pochi giorni Roma ha messo a segno due colpi che le valgono il titolo indiscusso di capitale dei diritti" aggiunge Yuri Guaiana, segretario dell'Associazione Radicale Certi Diritti.

"L'aspetto più importante di questa iniziativa è che avviene per iniziativa dell’amministrazione comunale e non in esecuzione di un provvedimento giudiziale: a differenza del Comune di Torino che ha dato esecuzione a una sentenza che vale solo per il caso specifico, Roma Capitale ha modificato la propria prassi amministrativa garantendo d'ora in poi le trascrizioni dei certificati stranieri riportanti due genitori dello stesso sesso.
È importante rilevare che, a differenza di quanto avvenuto con la trascrizione dei matrimoni fra due persone dello stesso genere nel mese di ottobre 2014, in questo caso l’atto è stato compiuto direttamente dall’amministrazione comunale e non dal sindaco Ignazio Marino.
Quello del Comune di Roma è un atto politico serio e di grande coraggio che surclassa un Parlamento fermo al 1975 in materia di Diritto di Famiglia."

"Adesso - concludono Guaiana e Magi - si provveda subito a livello nazionale con una buona legge che riconosca a tutte le forme familiari gli stessi diritti e doveri e una pluralità di istituti tra i quali tutti possano scegliere liberamente per organizzare la propria vita affettiva".