Riprendiamo dal FOGLIO di oggi,
13/02/2015, a pag. 3, con il titolo "Notizie dal fronte delle
'bambinate'. Tutte le bugie di Assad", l'analisi di Paola Peduzzi.
Bashar al Assad
La rivolta in Siria è iniziata l’11 marzo del 2011, quasi quattro
anni fa, una protesta come quelle che, allora, erano piuttosto frequenti
in medio oriente. Era la Primavera araba e se adesso l’espressione è
diventata quasi impronunciabile – se non ridicolizzata – ciò non toglie
che fosse invero rivoluzionaria. Era l’effetto domino della democrazia
di cui tanto si era discusso negli anni della Casa Bianca di Bush, le
piazze che dicono no ai loro dittatori, che chiedono di mangiare, di
lavorare, di essere più libere.
In Siria quelle prime piazze erano piene e pacifiche, la prima in
assoluto fu quella di Deraa, un centro certo non urbano né cosmopolita:
si ribellava all’arresto e al maltrattamento di 15 ragazzini colpevoli
di aver disegnato dei graffiti contro il regime della famiglia Assad. E’
difficile oggi dopo quattro anni ricordare lo spirito di allora, perché
è andato perduto in mezzo alle contorsioni della diplomazia
internazionale e alla guerra intramusulmana che si è scatenata.
L'antico sport dei tiranni del Medio Oriente, l'Iran degli ayatollah e la Siria di Assad
Sul quotidiano online al Monitor di recente è uscito un dispaccio su
Aleppo. Quando è arrivata la neve, a gennaio, i bambini sono corsi per
le strade, guardavano i fiocchi cadere, prendevano la neve, la
assaggiavano, la tiravano. Pensavano che sarebbe stato divertente, un
diversivo in quattro anni di guerra, le scuole chiuse, vacanza
inaspettata, se si può immaginare qualcosa che assomigli a una vacanza,
in una città sotto costante attacco aereo. Poi il fascino di tutto quel
bianco è diventato soltanto freddo. Non c’è elettricità, non c’è acqua,
non c’è combustibile, non c’è gas, non c’è riscaldamento. Non ci sono i
cappotti o i maglioni, a volte nemmeno da mangiare.
E mentre i giornali internazionali si riempivano – riempivano si fa
per dire, di certa ferocia si parla sempre meno – di titoli sulla
“guerra di Aleppo”, “lo spirito della gente si è spezzato, così come
quello della città”. Il popolo siriano è spezzato. Duecentodiecimila
morti, tre milioni di rifugiati negli stati confinanti, un terzo dei 22
milioni di siriani che cerca di sfuggire ai combattimenti trovando
riparo dove riesce, restando nel proprio paese, perché non può
andarsene. E poiché la ferocia di una dittatura non sta soltanto nel
numero di bombe e di torture che utilizza – in questo caso comunque un
numero enorme – ai siriani tocca anche sentire il proprio presidente
“democraticamente eletto” che scrive la sua storia, e quella storia
diventa “una verità con cui confrontarsi”.
Nell’intervista rilasciata alla Bbc questa settimana Bashar el Assad
racconta la sua versione dei fatti e – contro ogni prova portata al
cospetto delle cancellerie internazionali da persone che hanno visto e
ascoltato testimoni – nega ogni sua responsabilità. Dice anche che dorme
la notte, sprezzante, certo qualcosa ogni tanto lo preoccupa, lo tiene
sveglio, “a volte il lavoro, a volte le questioni personali. La vita”,
come ognuno di noi, “ogni cosa che può influenzare qualsiasi altro uomo,
sono un uomo, sono influenzato dagli stessi fattori”. E mai queste
parole – la vita, l’essere umano – sono suonate tanto stonate come sulla
bocca di Assad.
Tutto quel che si dice della guerra civile in Siria, tutti i
resoconti che arrivano, drammatici, dal fronte dei ribelli (che sarà
pure diviso, ma esiste), diventa nelle parole di Assad una “childish
story”, un racconto infantile, puerile. Una bambinata. A cominciare
dall’inizio, quello stesso inizio che noi occidentali facciamo fatica a
ricordare perché la logica banale secondo cui “la Siria è complicata” ci
ha assaliti e lasciati inermi: “Dobbiamo parlare dei fatti – dice Assad
– Fin dall’inizio le dimostrazioni non erano pacifiche. Alcuni volevano
la democrazia, è vero, ma non era generalmente così. Questo è il primo
fatto. Secondo: stiamo parlando di 140 mila manifestanti, il numero più
alto raggiunto in un solo giorno in Siria. Diciamo pure che fosse un
milione di persone, ammettiamo che sto abbassando il numero. Non lo sto
facendo, ma diciamolo. Diciamo che era un milione. Un milione su 24
milioni di siriani non è niente”.
Così comincia la ricostruzione di Assad: la Siria è stata messa sotto
attacco da una minoranza terrorista, i moderati non sono mai esistiti,
“lo ha detto lo stesso Obama che era una fantasia. Era un sogno”. E se
pensate che questa sia la beffa più grande, che il dittatore siriano usi
le parole del leader del mondo libero per ridisegnare la sua versione
dei fatti, è perché non avete sentito ancora il resto. Il governo di
Damasco ha dovuto reagire, “combattendo il terrorismo – dice –
difendendo i civili, noi stiamo difendendo i civili, e dialogando. Se
fosse vero che siamo noi che stiamo uccidendo il nostro popolo, come
avremmo potuto sopravvivere per quattro anni, con tutta questa gente
contro di noi, l’occidente, altri paesi nella regione – e io avrei
passato quattro anni, al potere, con l’esercito e le istituzioni, senza
consenso pubblico? E’ impossibile, questo è mentalmente inaccettabile”.
In realtà è la definizione stessa di dittatura: mantengo il controllo
con la forza, la brutalità, il terrore. Ma il consenso politico è
spiegato dal fatto, dice Assad, che il suo regime sta difendendo il
popolo, e il popolo sta con lui. E tutti i morti, gli attacchi con le
spietate “barrel bomb” testimoniate da giornalisti, Human Right Watch,
le Nazioni Unite, gli Scud, gli attacchi chimici sotterrati nella
memoria dal nostro cosiddetto “realismo”, le bombe sulle scuole, la
fame, arma letale per piegare anche i più vigorosi?
Niente, bambinate. “Ancora una volta – dice Assad – Se uno che ha
contro il suo stesso popolo e ha contro i poteri della regione e ha
contro i poteri ancora più grandi, tutto l’occidente, sopravvive, come
fa a farlo? Se uccidi i siriani, loro ti sostengono o ti si oppongono?
Se hai il consenso pubblico, vuol dire che stai difendendo il tuo
popolo. Se lo uccidi, si rivolterà. E’ logica, senso comune”. Lo stesso
senso comune per cui “l’esercito usa bombe, missili e proiettili. Non ho
mai sentito parlare di bombe con i barili o con le pentole”. Il
giornalista della Bbc insiste, ci sono i testimoni!, ma niente: “Sono
chiamate bombe. Abbiamo bombe, missili e proiettili”.
Lo stesso vale per gli agenti chimici, non solo il sarin utilizzato e
testimoniato tra il 2012 e il 2013 (Obama e il suo segretario di stato
John Kerry erano inorriditi dall’“atrocità morale” dei bambini che
rigurgitavano saliva mista a veleno, e morivano: stavano per fare la
guerra) ma anche il cloro, comprovato dalle organizzazioni
internazionali (il giornalista del Foglio Daniele Raineri ha scattato
delle foto in Siria che sono state riprese, come prove, da molti media,
il reportage è stato pubblicato il 22 aprile 2014): mai usato. “Il cloro
esiste in ogni fabbrica, in ogni casa in Siria – dice Assad – e ovunque
nel mondo, non è un materiale militare”. Lo può diventare però, “certo,
tutto può essere militarizzato”, risponde il rais. “Se usi il gas come
arma di distruzione di massa – continua – ci sono migliaia se non
centinaia di migliaia di vittime in poche ore. Non è quel che è a
capitato in Siria. E poi, tutto quel che dobbiamo fare, lo possiamo fare
con le armi convenzionali” – e quest’ultima è forse l’unica cosa reale
che Assad ha detto: puoi sterminare il tuo popolo a suon di bombe. E’
che il regime di Damasco ne usa anche altre, di armi, e la strategia,
soprattutto con gli agenti chimici, è di usarne in quantità non
eccessive e non di continuo, per poter poi dire che, appunto, non ci
sono stati migliaia di morti in poche ore.
E anche le altre “armi indiscriminate”, cioè le bombe cariche di
chiodi che colpiscono ovunque, non esistono, ribadisce Assad, “quando
spari, hai un obiettivo, e questo obiettivo sono i terroristi, e
spariamo per proteggere i civili. Se stiamo parlando delle vittime, be’
certo, è una guerra. Non c’è guerra senza vittime”. Nella notte tra
lunedì e martedì a Douma, vicino alla famigerata Ghouta che nel 2013 fu
attaccata con sostanze chimiche, le forze aeree di Assad hanno portato a
termine una serie di bombardamenti, e tutti i testimoni dicono che si
trattava di “barrel bomb”. La campagna brutale era iniziata già la
settimana scorsa, ci sono almeno 200 morti, nel giro di qualche giorno –
è stato colpito anche un mercato, soltanto lì ci sono stati 40 morti,
normalmente parleremmo di strage.
Tutta l’area attorno a Damasco è sotto i bombardamenti da mesi –
soltanto nelle scorse ore il Syrian Network for Human Rights ha raccolto
35 filmati e 50 fotografie degli attacchi in corso – c’è stata una
piccola tregua quando è iniziata la campagna internazionale contro lo
Stato islamico: Assad temeva che, una volta entrati in Siria, gli
americani avrebbero fatto quel che da sempre dicevano di voler fare,
cioè cacciarlo. Non appena si è accorto – e la consapevolezza è stata
piuttosto rapida, oltre che corretta – di non essere in pericolo, anzi
di potersi addirittura accreditare come un alleato di fatto nella lotta
al jihadismo dello Stato islamico, Assad è tornato al suo business as
usual. I razzi, i missili, i proiettili, come direbbe lui, e ovviamente
le “barrel bomb”, a meno che non si creda davvero che tutte le prove
raccolte in quattro anni sulla ferocia del regime siano costruite ad
arte – un po’ come credere a Vladimir Putin quando dice che i
separatisti nell’est dell’Ucraina sono fuori dal suo controllo.
Oggi Assad è tranquillo – a parte i dilemmi umani che tutti abbiamo,
s’intende – perché non deve temere nulla, né per il suo futuro, né per i
suoi aerei. Non c’è un coordinamento diretto con la coalizione guidata
dagli Stati Uniti contro lo Stato islamico – “loro non parlano con
nessuno, se non con chi è un loro pupazzo, e fanno facilmente a meno
della legge internazionale, che riguarda ora la nostra sovranità, quindi
loro non parlano con noi, noi non parliamo con loro” – ma con “terze
parti” sì. Gli iracheni soprattutto, ma anche altri, “non è un dialogo,
sono informazioni”, cioè loro dicono qualcosa a Damasco. Ecco spiegata
la collaborazione che si è venuta a creare, in Siria e anche in Iraq,
tra il regime siriano e i suoi alleati – l’Iran e Hezbollah – e i
componenti della coalizione anti Stato islamico.
Il nemico comune e riconosciuto contro il quale Obama chiede più
poteri di guerra va combattuto insieme, e ad Assad non pare vero di
poterlo fare: è dalla seconda conferenza di Ginevra, nel gennaio del
2014, che i russi, altri alleati di Assad, suggeriscono a Damasco di
buttarla sul terrorismo. Il consiglio si è rivelato utilissimo: stiamo
tutti combattendo contro al Baghdadi, certo non siamo proprio simili,
certo se si potessero scegliere, i propri compagni di avventura,
difficilmente si andrebbe accompagnati in questo modo, ma turarsi il
naso può essere utile, se in gioco c’è tutto il tuo regno. Poiché nella
strategia verso la Siria è andato tutto storto – forse perché non ce n’è
mai stata una – ora ci si ritrova nella condizione di aspettare con
terrore “lo scontro finale” ad Aleppo, mentre il regime di Damasco piano
piano sta cercando di riconquistare il sud, a cominciare da quella
Deraa da cui tutto era iniziato.
Soltanto che a sud ci sono anche le colline del Golan e quindi
Israele. L’esercito siriano ha annunciato “una vasta operazione”
nell’area sotto la capitale per combattere “i terroristi di al Nusra”,
il fronte legato ad al Qaida, che secondo Damasco occupa la zona. A
guidare l’azione ci sono gli uomini di Hezbollah, coordinati dalle
Guardie rivoluzionarie iraniane – e la loro presenza è per una volta
inconfutabile: un pasdaran è rimasto ucciso proprio sul Golan da un
attacco dell’aviazione israeliana. Quindi se l’operazione non funziona,
resta al Qaida a un passo da Israele; se funziona arrivano Hezbollah e
l’Iran.
A furia di non prendere mai una decisione, a preferire uno status quo
umanitariamente e strategicamente inaccettabile, si è finiti per
mettere in pericolo esistenziale l’unico solido alleato della regione:
Gerusalemme. Nonostante la crisi siriana sia diventata la sorgente di
effetti collaterali mortali, Assad resta un interlocutore, molti
azzardano ancora la definizione di “elemento di stabilità”. Gli
americani non parlano più di “Assad must go”, l’inviato dell’Onu in
Siria, Staffan de Mistura, ha appena incontrato il rais siriano per
negoziare un congelamento dello scontro ad Aleppo, a breve ci sarà una
nuova iniziativa russa per la creazione di un governo di unità
nazionale, in cui però è compreso anche Assad. E come già è accaduto in
passato con l’Iran, a ogni mano tesa – più o meno direttamente –
dell’occidente, corrisponde un rifiuto.
Assad dice che i veri terroristi sono gli americani (e i sauditi), e
quando il giornalista gli chiede se lo scambio di informazioni è
biunivoco, l’occidente non vi attacca ma voi lo aiutate con altra
intelligence, il rais siriano può rispondere impertinente, come uno che
sa di non essere in pericolo: “No”.
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