Dopo i «Quaderni neri». La pubblicazione dei testi dove lo sterminio
degli ebrei è definito un «autoannientamento» segna una svolta Che
rilancia la necessità di interrogare a fondo il pensiero del filosofo,
senza dividersi tra fan e avversari. In Germania si resta poco disposti a
parlare pubblicamente di Auschwitz.
di Donatella Di Cesare
(dal Corriere della Sera, 9 febbraio 2015)
Qualcuno definisce già il 2014 l'anno zero di Heidegger. L'affermazione
è azzardata. Ma certo l'uscita dei Quaderni neri segna nel confronto
con il pensiero del filosofo tedesco una svolta la cui portata e i cui
esiti non possono oggi essere previsti. Tanto più che la pubblicazione è
ancora in corso e il prossimo volume, che va dal 1942 al 1948, è atteso
in Germania ai primi di marzo. Proprio per questo è indispensabile
evitare le reazioni emotive, i giudizi precipitosi e sommari. Per quanto
sia estremamente difficile, occorre invece continuare a interrogarsi e,
anzi, mantenere aperte le domande. Serve, insomma, l'esercizio della
filosofia.
D'altronde qui non si parla di un dettaglio biografico né di un «errore politico». In tal senso la questione è ben diversa da quella sollevata da Victor Farías e, anni più tardi, da Emmanuel Faye.
I
Quaderni neri sono testi scritti da Heidegger che ne aveva progettato
la pubblicazione. E per di più sono testi strettamente connessi con la
sua opera. Il nodo è filosofico. Dissento perciò dalla dichiarazione che
ha rilasciato Gianni Vattimo all'«Ansa», perché se Heidegger cede alla
metafisica nel definire gli ebrei e l'ebraismo — come io stessa ho
indicato nel mio libro — quel che dice nei Quaderni neri non può essere
derubricato a dottrina, da tenere separata dalla filosofia. Non sarà più
possibile nel futuro, per qualsiasi studio critico, far finta che
quest'opera non esista.
Se oggi possiamo leggere i Quaderni neri è grazie anzitutto al lavoro editoriale di Peter Trawny e alle sue riflessioni contenute nel volume Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung (Heidegger e il mito del complotto ebraico), che sta per essere pubblicato da Klostermann nella terza edizione.
Decisivo è
stato il convegno Heidegger et tes «juifs» organizzato a Parigi, tra il
22 e il 25 gennaio scorso, da Joseh Cohen e da Raphael Zagury-Oriy, che
sono riusciti nell'ardua impresa di far discutere filosofi molto
diversi: da Peter Sloterdijk a Alain Finkielkraut, da Maurice Olender a
Bernard-Henri Levy. Al di là dei singoli importanti contributi, è emersa
l'esigenza di proseguire la discussione critica senza cadere in
preclusioni o chiusure affrettate.
Più frastagliato appare il panorama della filosofia tedesca, ancora profondamente segnata dalla rimozione del nazismo e meno disposta a parlare apertamente di Auschwitz e della «questione ebraica». Ma rifiutare d'improvviso Heidegger, come ha fatto di recente Günter Figal, dimettendosi dalla carica di presidente della Società Martin Heidegger, non vuol dire forse eludere il confronto con quel che è accaduto solo qualche decennio fa?
Se nei Quaderni neri che sono stati pubblicati (i volumi 94-96 delle opere complete) è venuto alla luce, in tutta la sua rilevanza, l'antisemitismo metafisico, nei quaderni che stanno per uscire (ii volume 97) è cancellato per sempre il silenzio sulla Shoah. Nello sterminio — come ho sottolineato nell'articolo uscito ieri su «la Lettura» — Heidegger vede un autoannientamento degli ebrei.
«Solo quando quel che è
essenzialmente "ebraico", in senso metafisico, lotta contro quel che è
ebraico, viene raggiunto il culmine dell'autoannientamento nella
storia».
In una delle sue lezioni talmudiche Emmanuel Lévinas, allievo
di Heidegger a Friburgo, ha detto che si potrebbe perdonare «chi abbia
parlato senza coscienza». Ma le cose stanno diversamente quando si
tratta di un «geniale Rav», un maestro chiamato a un grande destino.
«Si
possono perdonare molti tedeschi, ma ci sono tedeschi a cui è difficile
perdonare. È difficile perdonare Heidegger».
Queste parole, che
assumono ora un significato ancor più profondo, non esimono tuttavia dal
compito di studiare attentamente le pagine di Heidegger e di guardare
alla Shoah in una prospettiva inedita. Perché la Shoah non è solo una
questione storica, ma è una questione filosofica che coinvolge
direttamente la filosofia. Le responsabilità di una lunga tradizione di
pensiero devono essere ancora accertate e discusse. Così come la storia
dell'antisemitismo nella filosofia attende ancora di essere scritta.
Si
presume spesso di sapere che cosa sia l'antisemitismo, che cosa sia la
Shoah. Soprattutto in Italia questo ha dato luogo a confusioni
pericolose e a sterili polemiche, come quelle suscitate nel giorno della
memoria. Certo che, come diceva già Primo Levi, ci sono state genocidi
sia prima, sia dopo Auschwitz.
Se i paragoni sono necessari, perché la Shoah fa parte della storia, occorre tuttavia guardare alle peculiarità di un annientamento che ancor oggi sfuggono. Nei campi di sterminio — che vanno distinti dai campi di concentramento o di lavoro — l'industria della morte lavorava giorno e notte per la «soluzione forale», cioè per eliminare il popolo ebraico dal pianeta. Le camere a gas sono state il luogo incancellabile di un progetto sistematico di «depurazione».
Se i paragoni sono necessari, perché la Shoah fa parte della storia, occorre tuttavia guardare alle peculiarità di un annientamento che ancor oggi sfuggono. Nei campi di sterminio — che vanno distinti dai campi di concentramento o di lavoro — l'industria della morte lavorava giorno e notte per la «soluzione forale», cioè per eliminare il popolo ebraico dal pianeta. Le camere a gas sono state il luogo incancellabile di un progetto sistematico di «depurazione».
Ma lo sterminio è stato senza precedenti anche
perché non era mai avvenuto che si uccidesse in una catena di montaggio.
Il processo di industrializzazione della morte, che assunse la
precisione quasi rituale della tecnica, trovò nell'uso del gas un
cambiamento di qualità. Le gassazioni su scala industriale hanno
introdotto l'anonimato dei carnefici di fronte alle vittime senza nome e
hanno consentito la frantumazione della responsabilità. Non è un caso
che l'etica sia stata uno dei grandi temi dopo la Shoah.
I principi che
la filosofia ha ritenuto validi non hanno retto alla prova di Auschwitz,
dove il limite etico ha perso ogni senso di fronte alla degradazione
dell'umano, alla privazione della dignità, non solo della vita, ma
persino della morte. Pensare dopo Auschwitz significa uscire da una
sintassi autistica per avviarsi non verso una libertà astratta, bensì
verso una liberazione che, come quella dell'esodo, si realizza ogni
volta con l'altro.
L'esodo è il passo in fuori compiuto da un sé
consapevole di essere sempre preceduto dall'altro che lo interroga, a
cui è chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria, ma
perché è in quel volgersi che si costituisce come io, senza altra
possibilità di scelta. E come l'altro precede il sé, così la
responsabilità precede la libertà.
Questa inversione del cammino è la
sovversione ebraica che ha segnato la rottura nell'asse dell'Essere. Non
è, dunque, neppure un caso che a rilanciare, nella seconda metà del
Novecento, la questione della responsabilità siano stati i filosofi
ebrei, da Hans Jonas a Hannah Arendt e a Günther Anders, da Emmanuel
Lévinas a Jacques Derrida, tutti allievi diretti o indiretti di
Heidegger. Come spiegarlo? E sarebbe immaginabile il loro contributo
senza il suo pensiero?
Queste domande restano aperte. Ma una
precisazione è indispensabile. Leggere Heidegger, confrontarsi con le
frasi inquietanti dei Quaderni neri, non significa aderire a quel che ha
scritto. La filosofia non è — come alcuni credono — un match
calcistico, la sfida di una squadra contro l'altra; non si riduce al pro
e al contro. Chi filosofa sopporta la complessità e abita nel
chiaroscuro della riflessione.
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