mercoledì 15 giugno 2016

Giovani allo sbando

La sconvolgente lettera di una insegnante sassarese. Perché in Sardegna la vera emergenza è quella educativa

giovani_alcol
Chi può, vi prego, legga la lettera che l’insegnante Franca Puggioni ha inviato alla Nuova Sardegna e che il quotidiano ha pubblicato oggi nella pagina dei commenti. Non si trova on line per cui mi sono permesso di pubblicarla alla fine di questo post. Si parla del caso del ragazzo 19enne che a Sassari ha aggredito a sprangate la sua fidanzata. Ma si parla più in generale della drammatica situazione che riguarda i giovani sardi.

La storia di Simone mi ha ricordato quella del ragazzo di Nule accusato di essere l’omicida di Gianluca Monni, il giovane di Orune ucciso un anno alla fermata del pullman che lo avrebbe portato a scuola. Senza entrare nel merito di questa vicenda giudiziaria, le intercettazioni ambientali ci hanno restituito un profilo (fatto di attentati incendiari su commissione, di furti, di violenze domestiche più agite che subite, tutte cose a quanto pare note in paese) che sembra molto simile a quello del giovane sassarese.
In entrambi i casi, né la famiglia, né la comunità, né la scuola, né i servizi sociali, né le autorità sanitarie, né l’autorità giudiziaria, benché sapessero che la situazione era grave, sono riusciti a fermare la folle corsa di questi giovani verso la cazzata della loro vita.

In Sardegna c’è una gigantesca emergenza educativa che trova la sua manifestazione più grave nella dispersione scolastica, segnale di un disagio esistenziale di cui la lettera della Puggioni dà conto.
Ma le emergenze sono anche altre. La nostra è una delle regioni italiane che spende di più per i servizi sociali, però è chiaro che i servizi sociali da noi non funzionano o funzionano molto male. Il caso di Sassari lo dimostra senza tema di smentita.
In questo settore sembra di assistere a quello che il sociologo Robert Merton chiamava “ritualismo burocratico”: all’interno di una organizzazione ciascuno fa il suo compitino, non importa se poi si ottengono i risultati attesi, l’importante è che tutti i timbri siano a posto e che, soprattutto, nessuno sia responsabile fino in fondo dei (pessimi) risultati ottenuti.
Se tutta la società sarda non prende coscienza nel suo complesso della devastante emergenza educativa che la sta investendo (ben più grave di tutte le crisi che conosciamo e che finiscono sempre sui giornali, da quella dei trasporti a quella industriale), nessun intervento potrà mai essere efficace. La varie componenti della società sarda dovrebbero fare un patto, con l’obiettivo di orientare ogni nostra azione  ai giovani, alla loro crescita, al loro benessere. Invece questo non avviene.
Molto poi dipende anche da come la si racconta la realtà. Oggi il caso di Simone viene trattato dall’Unione Sarda in due pagine dedicate al femminicidio quando è evidente che con quel tema c’entra poco o nulla. C’entra invece il tema dei servizi sociali e sanitari che non funzionano, della scuola che non ha gli strumenti per accogliere le esistenze problematiche come quella di Simone, dei giovani allo sbando che nessuno riesce a salvare. Simone, da minorenne, aveva rubato l’auto del padre e schiantandosi a 160 all’ora aveva provocato la morte di una ragazza. E Puggioni racconta come la scuola non avesse avuto i fondi per fare seguire a Simone uno specifico corso di riabilitazione. Niente, non c’è stato niente da fare.
Qualcuno dia ai giornalisti nuovi schemi di interpretazione della realtà perché senza una analisi corretta non ci può essere una soluzione possibile. E lo schema della violenza uomo/donna non può essere riproposto sempre come l’unico possibile in grado di spiegare quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Se non altro, non in questo caso.

***

A Sassari qualche giorno fa un diciannovenne, Simone Niort, quasi uccide la fidanzata a sprangate. L’episodio è preceduto da una scenata in strada con minaccia di accoltellamento per un passante che cerca di interporsi. I carabinieri intervengono e nonostante la reazione scomposta del giovane, dopo avergli sequestrato il coltello lo rilasciano. Lui, nel pomeriggio, quindi amente fredda, si arma di spranga, va a casa della fidanzata e la massacra. È viva, malconcia, forse con qualche danno permanente ma insomma, se la caverà, speriamo.
L’episodio provoca la solita ondata di indignazione, pena richiesta di inasprimento delle pene, castrazioni, calci e schiaffi (gli stessi che Simone Niort ha riservato alla sua donna), pena di morte, invocazioni a ministre e istituzioni e così via. Lo dico subito, così togliamo di mezzo questo argomentò: la via giudiziaria alla risoluzione dei problemi sociali mi fa orrore.
Simone Niort ha 19 anni, se anche gli dessero dieci anni di carcere e li scontasse tutti, uscirebbe di galera rafforzato nella sua visione violenta del mondo e avrebbe 29 anni e una vita davanti per fare danno.
Che fare dunque? Io non lo so.
Però conosco un mondo, quello degli adolescenti che provengono dai quartieri della nostra città, o dai paesi vicini, spesso da situazioni familiari di estremo degrado, nelle quali la violenza nelle relazioni padre/madre, genitori/figli è l’unica modalità conosciuta, che vivono nutriti di Tv e poco altro. Questi ragazzi consumano alcol, droghe di varia natura, praticano sesso senza grandi protezioni (il numero di gravidanze precoci è impressionante), vivono senza regole e spesso non tornano a casa per giorni senza che nessuno si preoccupi di loro, sono razzisti, omofobi, violenti.
E questo vale anche per le ragazze che vivono però nella speranza di essere la prescelta del bullo di turno. Qualcuna di loro offre soldi, per comprare il fumo, in cambio di un pomeriggio di sesso che credono, solo loro, amore. Qualcuna in discoteca si presta a rapporti orali in cambio di un drink e una pasticca. È una realtà nella quale l’idea di una relazione rispettosa, civile, matura è, semplicemente, una faccenda per alieni.
Questi ragazzi, dei nostri discorsi su educazione al rispetto, campagne antifemminicidio, dichiarazioni di ministre e assessore, non sanno nulla e nemmeno ne vogliono sapere. Per essere più esplicita penso che la lingua che parliamo, noi emancipate e colte, sia per loro una lingua straniera ed estranea.
Nel caso specifico Simone Niort aveva una storia personale e familiare che le forze dell’ordine, servizi sociali, scuola, quartiere conoscevano benissimo. È un ragazzo con disturbi patologici del comportamento, che non aveva nessun autocontrollo, viveva tra palestra e la strada e purtroppo aveva una folta schiera di ammiratrici tra ragazzine che hanno la sua stessa storia. Il sollievo di sapere che non fosse una mia alunna mi consola ma non mi alleggerisce dall’angoscia.
La famiglia di Simone, la scuola di Simone ha chiesto aiuto molte volte. La scuola aveva chiesto un sostegno per tutta la durata dell’orario scolastico e uno specifico percorso di “riabilitazione sociale alla convivenza”. Per questo intervento non c’erano soldi, nemmeno per un percorso ridotto alla metà dell’orario. È chiaro che l’esito inevitabile è stato la sua esclusione dal percorso scolastico.
Nessuno può immaginare di tenere in una prima classe un ragazzo che passa da momenti di tranquilla serenità a momenti di violenza incontrollata contro compagni e insegnanti. Quello che è certo che i segnali di pericolo c’erano tutti, in passato anche tragici segnali.
Penso però che se qualcosa vale la pena di fare, è quella di ripensare radicalmente le politiche sociali, ci sono luoghi nelle nostre città dove bisognerebbe entrare con strumenti nuovi, più efficaci, meno burocratici, penso ad affiancamenti alle famiglie, sostengo alle scuole, operatori di strada per i ragazzi. Invece, noi insegnanti, le madri e i padri, i ragazzi siamo soli, ci parliamo con difficoltà, e restiamo poi muti davanti al sangue. Muti e sgomenti.
Franca Puggioni
insegnante

fonte: VitoBiolchini