La sconvolgente lettera di una insegnante sassarese. Perché in Sardegna la vera emergenza è quella educativa
Chi può, vi prego, legga la lettera che l’insegnante Franca Puggioni
ha inviato alla Nuova Sardegna e che il quotidiano ha pubblicato oggi
nella pagina dei commenti. Non si trova on line per cui mi sono permesso
di pubblicarla alla fine di questo post. Si parla del caso del ragazzo
19enne che a Sassari ha aggredito a sprangate la sua fidanzata. Ma si
parla più in generale della drammatica situazione che riguarda i giovani
sardi.
La storia di Simone mi ha ricordato quella del ragazzo di Nule accusato di essere l’omicida di Gianluca Monni,
il giovane di Orune ucciso un anno alla fermata del pullman che lo
avrebbe portato a scuola. Senza entrare nel merito di questa vicenda
giudiziaria, le intercettazioni ambientali ci hanno restituito un
profilo (fatto di attentati incendiari su commissione, di furti, di
violenze domestiche più agite che subite, tutte cose a quanto pare note
in paese) che sembra molto simile a quello del giovane sassarese.
In entrambi i casi, né la famiglia, né la comunità, né la scuola, né i
servizi sociali, né le autorità sanitarie, né l’autorità giudiziaria,
benché sapessero che la situazione era grave, sono riusciti a fermare la
folle corsa di questi giovani verso la cazzata della loro vita.
In Sardegna c’è una gigantesca emergenza educativa che trova la sua
manifestazione più grave nella dispersione scolastica, segnale di un
disagio esistenziale di cui la lettera della Puggioni dà conto.
Ma le emergenze sono anche altre. La nostra è una delle regioni
italiane che spende di più per i servizi sociali, però è chiaro che i
servizi sociali da noi non funzionano o funzionano molto male. Il caso
di Sassari lo dimostra senza tema di smentita.
In questo settore sembra di assistere a quello che il sociologo Robert Merton
chiamava “ritualismo burocratico”: all’interno di una organizzazione
ciascuno fa il suo compitino, non importa se poi si ottengono i
risultati attesi, l’importante è che tutti i timbri siano a posto e che,
soprattutto, nessuno sia responsabile fino in fondo dei (pessimi)
risultati ottenuti.
Se tutta la società sarda non prende coscienza nel suo complesso
della devastante emergenza educativa che la sta investendo (ben più
grave di tutte le crisi che conosciamo e che finiscono sempre sui
giornali, da quella dei trasporti a quella industriale), nessun
intervento potrà mai essere efficace. La varie componenti della società
sarda dovrebbero fare un patto, con l’obiettivo di orientare ogni nostra
azione ai giovani, alla loro crescita, al loro benessere. Invece
questo non avviene.
Molto poi dipende anche da come la si racconta la realtà. Oggi il
caso di Simone viene trattato dall’Unione Sarda in due pagine dedicate
al femminicidio quando è evidente che con quel tema c’entra poco o
nulla. C’entra invece il tema dei servizi sociali e sanitari che non
funzionano, della scuola che non ha gli strumenti per accogliere le
esistenze problematiche come quella di Simone, dei giovani allo sbando
che nessuno riesce a salvare. Simone, da minorenne, aveva rubato l’auto
del padre e schiantandosi a 160 all’ora aveva provocato la morte di una
ragazza. E Puggioni racconta come la scuola non avesse
avuto i fondi per fare seguire a Simone uno specifico corso di
riabilitazione. Niente, non c’è stato niente da fare.
Qualcuno dia ai giornalisti nuovi schemi di interpretazione della
realtà perché senza una analisi corretta non ci può essere una soluzione
possibile. E lo schema della violenza uomo/donna non può essere
riproposto sempre come l’unico possibile in grado di spiegare quello che
sta avvenendo sotto i nostri occhi. Se non altro, non in questo caso.
***
A Sassari qualche giorno fa un diciannovenne, Simone Niort, quasi
uccide la fidanzata a sprangate. L’episodio è preceduto da una scenata
in strada con minaccia di accoltellamento per un passante che cerca di
interporsi. I carabinieri intervengono e nonostante la reazione
scomposta del giovane, dopo avergli sequestrato il coltello lo
rilasciano. Lui, nel pomeriggio, quindi amente fredda, si arma di
spranga, va a casa della fidanzata e la massacra. È viva, malconcia,
forse con qualche danno permanente ma insomma, se la caverà, speriamo.
L’episodio provoca la solita ondata di indignazione, pena
richiesta di inasprimento delle pene, castrazioni, calci e schiaffi (gli
stessi che Simone Niort ha riservato alla sua donna), pena di morte,
invocazioni a ministre e istituzioni e così via. Lo dico subito, così
togliamo di mezzo questo argomentò: la via giudiziaria alla risoluzione
dei problemi sociali mi fa orrore.
Simone Niort ha 19 anni, se anche gli dessero dieci anni di
carcere e li scontasse tutti, uscirebbe di galera rafforzato nella sua
visione violenta del mondo e avrebbe 29 anni e una vita davanti per fare
danno.
Che fare dunque? Io non lo so.
Però conosco un mondo, quello degli adolescenti che provengono
dai quartieri della nostra città, o dai paesi vicini, spesso da
situazioni familiari di estremo degrado, nelle quali la violenza nelle
relazioni padre/madre, genitori/figli è l’unica modalità conosciuta, che
vivono nutriti di Tv e poco altro. Questi ragazzi consumano alcol,
droghe di varia natura, praticano sesso senza grandi protezioni (il
numero di gravidanze precoci è impressionante), vivono senza regole e
spesso non tornano a casa per giorni senza che nessuno si preoccupi di
loro, sono razzisti, omofobi, violenti.
E questo vale anche per le ragazze che vivono però nella speranza
di essere la prescelta del bullo di turno. Qualcuna di loro offre
soldi, per comprare il fumo, in cambio di un pomeriggio di sesso che
credono, solo loro, amore. Qualcuna in discoteca si presta a rapporti
orali in cambio di un drink e una pasticca. È una realtà nella quale
l’idea di una relazione rispettosa, civile, matura è, semplicemente, una
faccenda per alieni.
Questi ragazzi, dei nostri discorsi su educazione al rispetto,
campagne antifemminicidio, dichiarazioni di ministre e assessore, non
sanno nulla e nemmeno ne vogliono sapere. Per essere più esplicita penso
che la lingua che parliamo, noi emancipate e colte, sia per loro una
lingua straniera ed estranea.
Nel caso specifico Simone Niort aveva una storia personale e
familiare che le forze dell’ordine, servizi sociali, scuola, quartiere
conoscevano benissimo. È un ragazzo con disturbi patologici del
comportamento, che non aveva nessun autocontrollo, viveva tra palestra e
la strada e purtroppo aveva una folta schiera di ammiratrici tra
ragazzine che hanno la sua stessa storia. Il sollievo di sapere che non
fosse una mia alunna mi consola ma non mi alleggerisce dall’angoscia.
La famiglia di Simone, la scuola di Simone ha chiesto aiuto molte
volte. La scuola aveva chiesto un sostegno per tutta la durata
dell’orario scolastico e uno specifico percorso di “riabilitazione
sociale alla convivenza”. Per questo intervento non c’erano soldi,
nemmeno per un percorso ridotto alla metà dell’orario. È chiaro che
l’esito inevitabile è stato la sua esclusione dal percorso scolastico.
Nessuno può immaginare di tenere in una prima classe un ragazzo
che passa da momenti di tranquilla serenità a momenti di violenza
incontrollata contro compagni e insegnanti. Quello che è certo che i
segnali di pericolo c’erano tutti, in passato anche tragici segnali.
Penso però che se qualcosa vale la pena di fare, è quella di
ripensare radicalmente le politiche sociali, ci sono luoghi nelle nostre
città dove bisognerebbe entrare con strumenti nuovi, più efficaci, meno
burocratici, penso ad affiancamenti alle famiglie, sostengo alle
scuole, operatori di strada per i ragazzi. Invece, noi insegnanti, le
madri e i padri, i ragazzi siamo soli, ci parliamo con difficoltà, e
restiamo poi muti davanti al sangue. Muti e sgomenti.
Franca Puggioni
insegnante
fonte: VitoBiolchini
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