Nulla di misterioso in quella morte
articolo di Rossella Marchini pubblicato Giovedì, 11 Maggio 2017 su DinamoPress
Il 12 maggio di 40 anni fa, veniva uccisa Giorgiana Masi. Un racconto-ricordo di chi in quelle piazze c'era. Contro i tentativi di revisionismo degli assassini in borghese, sponsorizzati da Repubblica. Alle 18 presidio e casserolata sul Ponte Garibaldi.
«Hanno
sparato a una compagna. È successo sul ponte...a Trastevere». Così ho
scoperto della morte di quella che poi, più tardi, avrei saputo
chiamarsi Giorgiana. Giorgiana Masi.
Erano
ore che in piccoli gruppi cercavamo di entrare in quelle piazze (piazza
Navona, La Cancelleria, Campo dei Fiori), le nostre, quelle del
movimento. Ci provavamo, ma con violenza ci veniva impedito. Noi quel
giorno in piazza volevamo starci, volevamo essere a piazza Navona per
partecipare alla festa organizzata dai radicali per l’anniversario del
referendum sul divorzio.
Francesco
Cossiga, il ministro degli interni democristiano, Kossiga l’americano,
aveva vietato tutte le manifestazioni, dopo quella del 12 marzo dove,
per ore quelle stesse strade erano state attraversate in lungo e largo
da un corteo di 100 mila persone e dalla loro rabbia per un altro
assassinio, quello di Francesco Lo Russo, lo studente bolognese di Lotta
Continua colpito da una pallottola di un carabiniere.
Da
subito non sono riuscita a entrare a piazza Navona. Non ci sono proprio
arrivata. Era impossibile. Uno schieramento di blindati, non
tecnologicamente sofisticato come gli attuali, ma ugualmente
impenetrabile, bloccava tutte le vie di accesso alla piazza e ad ogni
nostro tentativo di entrare partivano le cariche.
Corse
infinite, in mezzo al fumo dei lacrimogeni, per poi ritrovarsi in
gruppo e ripartire. Iniziammo a sentire colpi di arma da fuoco, anche se
a me, che non lo avevo capito, sembravano dei botti, che comunque mi
terrorizzavano. Decidemmo con le compagne e i compagni che si erano
uniti a noi di andare avanti, entrare in una piazza.
Quei
ragazzi con la pistola in pugno, vestiti come i nostri compagni, li
vedemmo subito. A piazza della Cancelleria, a corso Vittorio si
muovevano con disinvoltura fra i blindati e gli agenti schierati.
Ma
nessuno, tra noi, mostrò di avere paura e quando ci ripenso - perché a
Giorgiana non abbiamo mai smesso di pensarci e alcune di noi, con quel
nome, hanno voluto chiamare le proprie figlie, oggi meravigliose donne e
nostre compagne - ricordo la paura, la corsa fra le vie del quartiere
Rinascimento, il respiro che ti manca, mentre gli occhi bruciano. Non
solo questo.
Rivedo
le mie compagne, le gonne a fiori, gli zoccoli olandesi che portavamo
tutte e con i quali riuscivamo persino a correre. Si, correvamo con il
fiato in gola e “loro” dietro. Ci facevano paura, ma continuavamo. Per
ore.
Ci
ritrovammo dopo molto tempo rinchiuse a Campo dei Fiori, non si poteva
uscire. Non so come riuscimmo ad ottenere l’apertura di una via per
poter defluire verso Trastevere. Una trappola, fummo caricate su ponte
Garibaldi. È lì che fu uccisa Giorgiana, dopo sette ore di scontri.
L’omicidio
di Giorgiana Masi è stato definito un “mistero italiano”. Per noi non
c’è stato mai nessun mistero. Come è morta Giorgiana lo sappiamo da
quella sera in cui ci arrivò la notizia, alla fine di una giornata
convulsa, violenta, drammatica.
Sconvolte
e ammutolite per il dolore, fummo annichilite dalle prime dichiarazioni
“ufficiali” che cercavano di addossare la responsabilità al “fuoco
amico”. Si disse che all’interno del corteo c’erano uomini armati, ma
non appartenevano alle forze dell’ordine.
Le
immagini, allora non così numerose come avviene da Genova in poi, degli
agenti in borghese che sparano, smentiranno il Questore che negava la
loro presenza in piazza. Francesco Cossiga fu costretto a chiedere scusa
in Parlamento per aver mentito, negandolo.
Le
inchieste che seguirono a quell’omicidio non hanno mai fatto luce sugli
avvenimenti. Dopo quattro anni, il caso è stato archiviato per mancanza
di prove e gli autori dell’omicidio rimasti ignoti.
Oggi
esce un libro che racconta la vita dell’agente in borghese ritratto
nella foto che Tano D’Amico scattò quel giorno, il poliziotto Santone,
quello con il borsello a tracolla, piegato davanti a una macchina. Lo
stesso che pochi giorni fa, come anticipazione di un prossimo libro, su “la Repubblica”
dichiara in un’intervista: «L’Espresso scrisse che eravamo infiltrati
fra i manifestanti. Non era vero. Eravamo guardie di pubblica sicurezza e
come tali non obbligati alla divisa».
«Ero un ragazzo che seguiva la moda».
«La borsa di Tolfa serviva per le sigarette, la carta igienica, i gettoni, il portafoglio».
«Cossiga fu il più grande Ministro degli Interni di sempre. Non sapeva niente dell’ordine pubblico di quel giorno».
Per
noi che quel giorno eravamo insieme a Giorgiana e tanti e tante altre a
rivendicare diritti e libertà di manifestare, per festeggiare una
vittoria di tre anni prima, è insopportabile che si trasformi in una
vittima chi fu protagonista, con molti altri, di quel massacro.
Erano
anni meravigliosi, quelli. Gli anni di grandi battaglie, di grandi
conquiste. Il movimento delle donne si riappropriava dello spazio
pubblico e costruiva luoghi separati di discussione.
Da
quel giorno, si iniziò a tessere un’altra narrazione, sulla “paura” che
avrebbe da allora costretto i cittadini di Roma a non uscire di casa,
fino a risorgere con l’estate romana di Renato Nicolini. Un’altra delle
tante narrazioni tossiche ad accompagnare una strategia della tensione
che sarebbe continuata con i tanti attentati alla democrazia che
seguirono.
Quel giorno il movimento non ebbe paura ad essere nelle strade, né ad uscire di casa, né a sfidare le imposizioni di Cossiga.
Da allora sappiamo che nulla di misterioso è in quella morte.
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