sabato 4 maggio 2013

Italia: paradiso per i petrolieri, inferno per i viventi






di Gianni Lannes



Pochi sanno che l'Italia è una sorta di eldorado fiscale per i petrolieri, perché esistono meccanismi che riducono a nulla il rischio d’impresa, ma sempre più un inferno per chi ci sopravvive, a causa dei danni ambientali e sanitari occultati all’opinione pubblica. 




Infatti le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, come le prime 50 mila tonnellate di petrolio estratte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi di gas in terra e i primi 80 milioni di metri cubi in mare sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato. 





Ma non è tutto: "Le aliquote (royalties) sul prodotto estratto sono di gran lunga le più basse al mondo e sulle 59 società operanti in Italia nel 2010 solo 5 le pagavano (ENI, Shell, Edison, Gas Plus Italiana ed ENI/Mediterranea idrocarburi)". Anche se il decreto “Cresci Italia” ha previsto un incremento delle royalties dal 7 al 10% per il gas e del 4% al 7% per il petrolio, ma è nulla rispetto alla media degli altri Paesi, in cui tali cifre vanno dal 20% all’80%.





Regalìe - Più precisamente lo Stato gioca al ribasso: con Decreto ministeriale del 22 marzo 2013 (Determinazione delle riduzioni del valore unitario delle aliquote di prodotto della coltivazione di idrocarburi royalties per l’anno 2012) il direttore generale (Franco Terlizzese) per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello Sviluppo Economico, ha stabilito le seguenti misure: «20,6144 euro per tonnellate di olio prodotto in terraferma; 41,2287 euro per tonnellate di olio prodotto in mare; 0,000687 euro/kg per ogni 5 km di condotta, con esclusione dei primi 30 km, e con un massimo di 20,6144 euro/t».





L’elenco dei titoli minerari vigenti al 30 aprile 2013 (idrocarburi e risorse geotermiche) rivela le proporzioni dell’assalto allo Stivale ed ai suoi mari. Infatti, attualmente, le concessioni di coltivazione in terraferma ammontano a 120 per una superficie complessiva di 8.702, 38 chilometri quadrati; mentre nel sottofondo marino si contano 66 concessioni di coltivazioni pari ad territorio esteso per 8.955, 07 kmq. Inoltre, in Sicilia, si rilevano altre 14 concessioni pari ad una superficie di 596,85 kmq. Quanto all’energia geotermica esistono ben 11 concessioni di coltivazioni in terraferma (perfino negli esplosivi Campi Flegrei), un permesso di ricerca sul sottofondo marino (Eurobuilding) per trivellare il vulcano attivo Marsili nel Tirreno,, e 44 permessi di ricerca in terraferma. Infine (ramo idrocarburi) si contano 89 permessi di ricerca in terraferma (su 25.505,37 kmq), esattamente 22 in mare (7.826,79 kmq), a cui si aggiungono i 6 permessi di ricerca in Sicilia.



L’elenco degli operatori più o meno associati in joint-ventures rivela la totale prevalenza di multinazionali straniere sotto mentite spoglie (in primis le società riconducibili a David Rockefeller (tra i fondatori del Bilderberg Group e della Trilateral Commission), finanziatore dell’Aspen Italia, a cui sono affiliati gran parte dei politicanti italioti, compreso il presidente della Repubblica Napolitano ed il primo ministro Letta). Precisazione d'obbligo: neanche più l'Eni è italiana, dopo la svendita sancita dai boiardi italioti al servizio di interessi altrui.





Grazie a leggi permissive (dulcis in fundo: la deregulation del ministro Passera sotto il governo dell’eterodiretto Monti), le compagnie petrolifere operanti in Italia - prevalentemente anglo-americane che utilizzano società di facciata per copertura - pagano alcune tra le più basse “compensazioni ambientali” o royalties del pianeta. Ad un irrisorio 4% di compensazioni sull’estrazioni di greggio dal mare pagate all’Italia, si contrappongono un corposo 80% riscosso dalla Russia, un 60% dall’Alaska, un 45% dal Canada e cosi via. Dunque, non solo l’Italia viene risarcita in piccolissima parte per i danni ambientali che subisce a causa delle trivellazioni, noi cittadini siamo anche costretti a pagare i prezzi del carburante più alti del mondo. La conclusione è scontata: più si trivella l’Italia ed i suoi mari, più a rimetterci è proprio la Penisola ed il popolo italiano. 


Secondo le ultime stime del ministero dello Sviluppo economico ci sarebbero nei nostri fondali marini 10,3 milioni di tonnellate di petrolio. Stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole 7 settimane. Non solo: anche attingendo al petrolio presente nel sottosuolo, concentrato soprattutto in Basilicata, il totale delle riserve certe nel nostro Paese verrebbe consumato in appena 13 mesi.



Questi dati dimostrano l’assoluta insensatezza del rilancio delle attività estrattive previsto dalla Strategia energetica nazionale prospettata dal ministro Passera e della spinta verso nuove trivellazioni volte a creare 15 miliardi di euro di investimento e 25mila nuovi posti di lavoro. Il settore è destinato a esaurirsi in pochi anni, come sostiene, per altro, lo stesso ministero dello Sviluppo economico nel Rapporto annuale 2012 della sua Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche: «Il rapporto fra le sole riserve certe e la produzione annuale media degli ultimi cinque anni, indica uno scenario di sviluppo articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio».



Continuare a puntare sull’energia fossile, oltre a rappresentare un rischio per l’ambiente e la salute dei cittadini, è un investimento miope e anacronistico. Lo sviluppo economico e l’uscita dalla crisi passa per una strada diversa fondata sullo sviluppo   rigoroso delle rinnovabili e di serie politiche di efficienza in tutti i settori, a partire da quello dei trasporti. Ma più di tutto, occorre puntare sull risanamento reale territoriale. Sono numeri dieci volte superiori a quelli ottenuti grazie alle nuove trivellazioni.




Mare minacciato - L'ultimo rapporto dell'Ispra (anno 2011) ha un titolo emblematico: "Sversamenti di prodotti petroliferi...".



Alle 9 piattaforme di estrazione petrolifera già attive si potrebbero aggiungere almeno altre 70 trivelle, grazie ai colpi di spugna normativi dell’ultimo anno, a partire dalla recente legge Sviluppo, che riapre i procedimenti autorizzativi di prospezione, ricerca e trivellazione in mare bloccati dalla norma approvata nell’estate 2010 dopo il tragico incidente alla piattaforma della BP nel Golfo del Messico.



Ad oggi, le 9 piattaforme petrolifere attive nel  nostro Paese sono operative sulla base di concessioni che riguardano 1.786 kmq di mare situate principalmente in Adriatico, a largo della costa abruzzese, marchigiana, di fronte a quella brindisina e nel Canale di Sicilia. A queste aree marine interessate dalle trivelle se ne potrebbero aggiungere altre: attualmente le richieste e i permessi per la ricerca di petrolio in mare riguardano soprattutto l’Adriatico centro meridionale, il Canale di Sicilia e il mar Ionio (quest’ultimo è tornato all’attenzione delle compagnie petrolifere dopo che nel 2011 una norma ad hoc ha riaperto la strada alle trivelle anche nel golfo di Taranto) e il golfo di Oristano in Sardegna.



Attualmente, 10.266 kmq di mare italiano sono oggetto di 19 permessi di ricerca petrolifera già rilasciati; 17.644 kmq di mare minacciati da 41 richieste di ricerca petrolifera non ancora rilasciate ma in attesa di valutazione e autorizzazione da parte del Ministero dello Sviluppo Economico.




In definitiva, tra aree già trivellate e quelle che a breve rischiano la stessa sorte, si tratta di circa 29.700 kmq di mare, una superficie più grande di quella della regione Sardegna.



Sui mari italiani gravano, inoltre, 7 richieste di estrazione di petrolio dove le fasi di ricerca hanno portato ad un esito positivo (3 nel canale di Sicilia, 2 davanti alle coste abruzzesi, 1 di fronte alle Marche e 1 nel mar Ionio) e 3 istanze di prospezione (si tratta della prima fase dell’iter autorizzativo, seguita da quella relativa alla ricerca di petrolio ed poi da quella che porta alla sua estrazione) che riguardano sostanzialmente tutto l’Adriatico da Ravenna al Salento, che rischiano di allargare di altri 45mila kmq l’area del mare italiano battuta dalle navi delle compagnie in cerca di petrolio.



Secondo i dati istituzionali «l’Italia detiene il primato di petrolio versato in mare». Prima per acque inquinate da petrolio. Suona così il preoccupante record tricolore, in riferimento alla vicenda di Otranto, dove una petroliera ha ripulito i serbatoi scaricando in mare una quantità di greggio giunta sulla costa sotto forma di chiazze e catrame. Negli ultimi 25 anni sono 162.200 le tonnellate disperse nelle acque territoriali italiane, segue a grande distanza la Turchia con quasi 50.000 tonnellate e il Libano con 29.000. 



Il primato del greggio versato si riferisce ai principali incidenti succedutisi dal 1985 al 2010 registrati dal Rempec, Centro sulla prevenzione e la gestione dell'emergenza in caso di inquinamento marino che opera nell'ambito della Convenzione di Barcellona: in questo lasso di tempo si sono verificati nel Mediterraneo ben 27 incidenti (noti), per uno sversamento complessivo di 270 mila tonnellate di idrocarburi.  







Soluzioni - E’ evidente che l’autosufficienza energetica italiana passa attraverso investimenti in energie rinnovabili che valorizzino il territorio e le sue risorse naturali, e non attraverso l’aumento indiscriminato dello sfruttamento ambientale causato dalle trivellazioni e dalle speculazioni in salsa verdastra di eolico e fotovoltaico industriale.
Le trivellazioni contribuiscono esclusivamente ad arricchire avide compagnie petrolifere e a degradare ulteriormente il nostro inestimabile patrimonio naturale.

E’ pura speculazione, niente più, a fronte dell’inquinamento di aria, acqua e suoli. Date un’occhiate all’elenco ufficiale degli esplosivi ammessi dal ministero competente, oppure, alle sostanze radioattive utilizzate per le perforazioni marine. E se non vi basta, provate a documentarvi sugli effetti mortali dei cannoni air gun sulla vita acquatica, in particolare dei cetacei.

La sicurezza energetica di un Paese dipende sempre di più dalla capacità di fare a meno dei carburanti fossili. L’Italia dispone più di altri di una risorsa naturale la cui importanza strategica dal punto di vista energetico, è destinata ad aumentare notevolmente in futuro: il sole.

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