Traduzione dall’inglese della trascrizione integrale di Tzur Trevi
Discorso pronunciato ad Oslo, il 27 Settembre 2014, dal Dr. George Deek, Vice-Ambasciatore di Israele in Norvegia
Quando
cammino per le strade della mia città, Jaffa, mi capita spesso di
pensare al 1948. I viali della Città Vecchia, le case del quartiere di
Ajami, le reti stese ad asciugare nel porto – tutte queste cose sembrano
volermi raccontare tante storie diverse a proposito di quell’anno che
ha cambiato, e per sempre, la storia della mia città. Una di queste
storie è quella di una delle più antiche famiglie residenti nella città –
la famiglia Deek – la mia famiglia.
Prima
del 1948 mio nonno George, quello che portava il nome con cui mi hannno
chiamato, lavorava come elettricista presso la Società Elettrica
Rotenberg.
Non si era mai interessato alla politica.
E siccome Jaffa era una città mista, naturalmente aveva anche amici ebrei.
A
dire il vero, questi suoi amici erano riusciti addirittura a fargli
imparare lo Yiddish dell’Europa Orientale, facendo di lui probabilmente
uno dei primi Arabi che mai avesse parlato tale lingua.
Nel
1947 mio Nonno si fidanzò con Vera – mia Nonna – ed insieme si misero a
fare progetti sul mettere su famiglia in quella stessa città dove tutti
i Deek avevano vissuto negli ultimi 400 anni.
A Jaffa.
Ma qualche mese dopo, tutti questi progetti andarono in fumo, letteralmente dalla sera alla mattina.
Quando
le Nazioni Unite approvarono la creazione dello Stato di Israele, ed in
pochi mesi gli Ebrei misero in piedi tale Stato, i leaders del mondo
arabo misero in allarme gli Arabi dicendo che se gli Arabi avessero
deciso di restare nelle proprie case, gli Ebrei si preparavano ad
ucciderli tutti e citarono il massacro di Deir Yessin come esempio di
ciò che sarebbe loro successo.
I leaders dissero a tutti: “Lasciate le vostre case e scappate!”
Dissero
loro che si trattava di stare lontani per pochi giorni, perché ben
cinque Eserciti Arabi ben presto avrebbero annientato quello Stato
d’Israele appena sorto.
La
mia famiglia, terrorizzata al pensiero di che cosa avrebbe potuto
accaderle, decise di mettersi in salvo, così come fece anche la
maggioranza di tutte le altre famiglie Arabe.
Un
prete venne chiamato in tutta fretta a casa dei Deek, e gli fu chiesto
di sposare George e Vera, così, su due piedi, nella casa di famiglia.
Mia nonna non ebbe nemmeno la possibilità di indossare un abito appropriato per la cerimonia.
Subito dopo questo matrimonio improvviso, l’intera famiglia cercò rifugio andando verso il Nord, in Libano.
Ma quando la guerra finì, fu evidente che gli Arabi avevano fallito nel loro scopo di distruggere Israele.
La
mia famiglia era rimasta al di là del confine, e sembrò ormai certo che
il destino dei fratelli e delle sorelle della famiglia Deek sarebbe
stato quello di disperdersi ai quattro angoli del Mondo.
Oggi ho parenti che vivono in Giordania, Libano, Dubai, Regno Unito, Canada, Stati Uniti, Australia, ed in altri paesi ancora.
La
storia della mia famiglia è solo una – e probabilmente nemmeno la
peggiore – tra le tante tragiche storie familiari dell’anno 1948.
E,
per essere franchi, non è necessario essere anti-israeliani per
riconoscere che ciò che è capitato agli Arabi di Palestina nel 1948, e
che da essi è chiamato “Naqba”, è stato un immane disastro umanitario.
Il
fatto che io debba usare Skype per parlare con i miei parenti canadesi –
che non parlano più arabo – o che abbia un cugino in un paese arabo di
cui non ha tuttora la cittadinanza, pur essendovi nato come esponente
della terza generazione dall’arrivo in quel paese della sua famiglia –
sono tutte testimonianze viventi delle tragiche conseguenze di quella
guerra.
Secondo
quanto stabilito dalla risoluzione dell’ONU n.711 migliaia di
Palestinesi vennero dislocati dai loro luoghi di origine, tra coloro che
fuggirono volontariamente e quelli che vennero espulsi.
In
quello stesso arco di tempo, a causa della nascita dello Stato di
Israele, circa 800mila Ebrei subirono pogrom nei paesi Arabi dove
vivevano da secoli e vennero costretti a fuggire a loro volta, lasciando
oggi tali paesi presso che privi della presenza ebraica.
Come abbiamo sentito e letto molte volte le atrocità commesse su entrambi i lati non furono cosa rara.
Tuttavia
appare anche chiaro che questo particolare conflitto non è stato certo
il solo ad essersi verificato, su scala mondiale, nel corso dei secoli
XIX e XX, che abbia causato come conseguenza espulsioni generalizzate e
trasferimenti forzosi di intere popolazioni.
Tra il 1821 ed il 1922, circa 5 milioni di musulmani ottomani vennero espulsi dall’Europa e rimandati in Turchia.
Negli
anni ’90 del secolo scorso la Jugoslavia siè sfaldata in pezzi in una
serie di guerre civili che hanno causato oltre 100.000 morti e 3 milioni
di profughi.
Nell’arco
di tempo tra il 1919 ed il 1949 in esecuzione della cosiddetta
“Operazione Wisla” 150.000 persone rimasero uccise negli attriti di
confine tra Polonia ed Ucraina ed 1,5 milioni furono i profughi
dislocati.
Al
termine della II Guerra Mondiale, in seguito a quanto stabilito alla
Convenzione di Potsdam, all’incirca tra 12 a 17 milioni di Tedeschi
dovettero lasciare come profughi i confini delle nuove nazioni stabiliti
dai trattati di Pace per andare a cercare rifugio in Germania.
Nel
1948, al momento della creazione dell’India e del Pakistan come
risultato della fine dell’Impero Britannico in India, furono oltre 15 i
milioni di persone che lasciarono le loro case per trasferirsi come
profughi nel paese della religione di loro appartenenza.
E del resto questo è stato un trend comune anche nello stesso Medio Oriente.
Gli Ottomani hanno trasformato in profughi 1,1 milioni di Curdi che vivevano in Turchia.
Circa 2,2 milioni di Cristiani sono stati cacciati, espulsi dall’Iraq.
Mentre
stiamo parlando, in questo stesso momento, Yazidi, Baha’i, Curdi,
Cristiani ed anche Musulmani vengono assassinati e fatti fuggire, al
ritmo di oltre mille persone al mese, a seguito del dilagare dei
proseliti del neo-Califfato dell’Islam radicale.
Le
possibilità che qualcuno di questi gruppi di popolazione possa
ritornare alle proprie case di origine è pressoché inesistente.
Ed
allora perché? Perché si verifica che le tragedie subite dai Serbi, dai
Musulmani Europei, dai rifugiati Polacchi e dai Cristiani Iracheni, non
vengano commemorate da nessuno?
Perché
la cacciata di centinaia di migliaia di Ebrei dal mondo Arabo è andata
completamente dimenticata, mentre la simmetrica tragedia degli Arabi di
Palestina, la Naqba, è invece ancora viva ed attiva nella politica di
oggi?
A
me sembra che la spiegazione consiste nel fatto che la Naqba, da
disastro umanitario è stata trasformata nello strumento di un’offensiva
politica.
La
commemorazione della Naqba da molto tempo ormai non è più l’occasone
per ricordare ciò che è successo, ma un modo per dimostrare la propria
insofferenza per la stessa esistenza dello Stato di Israele.
E
lo dimostra chiaramente il fatto di quale sia il giorno in cui si è
scelto di commemorarla: questo giorno non è infatti il 9 di aprile, il
giorno dell’anniversario del massacro di Deir Yassin, oppure il 13 di
Luglio, cioè l’anniversario dell’espulsione da Lod.
No.
Il
Giorno della Naqba è stato fissato il 15 di maggio, cioè esattamente il
giorno successivo allo Yom HaAtzmaut, la festa israeliana
dell’Indipendenza.
Così
facendo la leadership Palestinese ha implicitamente dimostrato di
ritenere che il disastro a cui ci si riferisce con il termine “Naqba”
non è quello delle espulsioni, dell’abbandono delle case e dei villaggi,
o del perdurante esilio degli Arabi, ma che “Naqba” per essi è il fatto
stesso della creazione dello Stato di Israele.
Dimostrano
nei fatti di provare meno dolore nei confronti della catastrofe
umanitaria che si è abbattuta sui Palestinesi, di quanto non ne provino
per la rinascita di uno stato Ebraico in Israele.
In
altre parole, dal mio punto di vista: loro non sono addolorati per il
fatto che mio cugino oggi sia un Giordano, ma piuttosto del fatto che
io, oggi, sia un Israeliano.
Scegliendo
di fare così i Palestinesi si sono resi schiavi del passato, che si
mantengono in una condizione di prigionieri legati da catene fatte di
risentimento, intrappolati in un mondo fatto di odio e di frustrazioni.
Ma,
amici, la verità, tanto evidente quanto è semplice, è che allo scopo di
non essere ridotti a vivere nella mera dimensione della sofferenza e
dell’amarezza, dobbiamo riuscire a guardare in avanti.
Per dirlo nel modo più chiaro: “Per porre rimedio al passato, per prima cosa devi assicurarti di avere un futuro”.
Questa è una cosa che ho imparato dal mio maestro di musica, Avraham Nov.
Quando
avevo 7 anni mi unii alla Banda Marciante della comunità
Arabo-Cristiana di Jaffa. È lì che incontrai Avraham, il mio insegnate
di musica, che mi ha insegnato dapprima a suonare il flauto, ed in
seguito anche il clarinetto. Ero bravo, credetemi.
Avraham
è un sopravvissuto all’Olocausto. La sua famiglia è stata completamente
sterminata dai Nazisti. Di tutti loro, lui è l’unico sopravvissuto, e
questo perché un certo ufficiale nazista – dopo averlo ascoltato mentre
suonava l’armonica a bocca – lo ritenne un musicita dotato, e lo portò a
casa sua allo scopo di intrattenere a cena i suoi ospiti.
Quando
la guerra finì Avraham restò solo. Avrebbe potuto facilmente adagiarsi,
e restarsene lì, accasciato ed in lacrime, considerando che cosa gli
era capitato a causa del più grande crimine mai perpetrato nella storia
contro il genere umano.
Ma lui non lo fece.
Lui scelse di guardare avanti, e non dietro.
Scelse la Vita e non la Morte.
La Speranza e non la Disperazione.
Avraham
venne in Israele, si sposò, costruì una famiglia, e decise di insegnare
quella stessa cosa che gli aveva salòvato la vita – la musica. È
diventato così l’insegnante di musica di centinaia, di migliaia di
bambini, in giro per tutto Israele.
E
quando vide la tensione tra Arabi ed Ebrei montare e sfuggire al
controllo, questo sopravvissuto all’Olocausto decise di insegnare la
Speranza, attraverso il canale della musica, a centinaia di bimbi arabi
come me.
I
sopravvissuti all’Olocausto, come Avraham, sono tra le persone più
straordinarie che vi possa essere mai dato di incontrare nella vita.
Sono
sempre stato curioso di capire come fossero riusciti a trovare la forza
di sopravvivere, sapendo quello che sapevano ed avendo visto ciò che
avevano visto. Eppure nei quindici anni che ho conosciuto Avraham come
insegnante, lui non parlò mai del suo passato, tranne una volta sola,
quando io gli chiesi di farlo.
Quello
che compresi allora fu che Avraham non era il solo ad essere così, che
molti dei sopravvissuti all’Olocausto non parlavano mai di quegli anni,
nemmeno nelle proprie famiglie, a volte per decenni, a volte per il
resto delle loro vite.
Solo
quando ritenevano di essersi assicurati un futuro, solo allora, si
concedevano di poter ripensare al passato. Solo quando fossero riusciti a
costruirsi un tempo per sperare, potevano permettere a se stessi di
ricordare i giorni neri della disperazione.
E loro avevavo costruito il loro futuro nella loro ancestrale ed al tempo stesso nuova casa, lo Stato di Israele.
Ed
agendo sotto l’ombra della loro più immane tragedia, gli Ebrei furono
capaci di costrure una nazione che oggi è un leader mondiale nella
Medicina, nell’Agricoltura e nella Tecnologia.
Come hanno potuto riuscirci? Perché hanno guardato avanti.
Amici,
quella di Israele è una lezione che è valida per ogni nazione che vuole
riuscire a superare una tragedia che l’abbia colpita, inclusa la
nazione Palestinese.
Se
i Palestinesi vogliono redimere il loro passato, allora devono per
prima cosa assicurarsi di avere un futuro, in un mondo che sia quello
che dovrebbe essere, che sia quello che i nostri figli si meritano cha
sia.
Ed
il primo passo in questa direzione è, senza alcun dubbio, quello di
porre fine al vergognoso trattamento dei rifugiati Palestinesi.
Nel
mondo arabo, i rifugiati Palestinesi – compresi i loro figli, i loro
nipoti, e talvolta anche i loro bis-nipoti – non sono stati integrati, e
sono stati aggressivamente fatti oggetto di ogni discriminazione, e
nella maggior parte dei casi è stata loro negata la cittadinanza ed i
più fondamentali diritti umani.
Qualcuno
mi può spiegare perché i miei parenti che vivono in Canada sono
cittadini Canadesi, mentre i miei parenti che vivono in Siria, in
Libano, o negli Emirati del Golfo Persico – persone che sono tutte nate
lì e che non conoscono altro posto che possano chiamare “casa” – sono
ancora considerati dei meri rifugiati?
Chiaramente
il trattamento che subiscono i Palestinesi nei paesi Arabi rappresenta
la condizione di oppressione più grande di cui essi abbiano mai fatto
esperienza, ovunque nel mondo.
Ed i complici in questo crimine non sono altri se non la Comunità Internazionale e le Nazioni Unite.
Invece
che adempiere alle sue stesse funzioni, ed aiutare i rifugiati a
ricostruirsi una vita, la Comunità Internazionale preferisce alimentare
la narrativa della vittimizzazione.
Mentre
infatti vi è un’unica agenzia dell’ONU che si deve occupare di tutti i
rifugiati esistenti nel mondo, la UNHCR, l’ONU ha creato una seconda
agenzia, la UNRWA, al solo scopo di occuparsi dei rifugiati Palestinesi.
E
questo fatto – lo sdoppiamento – non è affatto un coincidenza. Infatti
mentre l’obiettivo perseguito dalla UNHCR è quello di aiutare i
rifugiati a crearsi una nuova casa, e da essa partire per creare per
essi stessi un nuovo futuro, in modo da poter al più presto dismettere
lo status di rifugiati, l’obiettivo perseguito dalla UNRWA è esattamente
l’opposto: mantenere i rifugiati in tale loro status, ed impedire loro
di iniziare a crearsi delle vite nuove.
La
Comunità Internazionale non può seriamente aspettarsi di risolvere il
problema di questi rifugiati, se collabora con il Mondo Arabo nel
trattarli come un ostaggio dslla politica, negando loro quei diritti
fondamentali di cui essi meritano pienamente di godere.
Dovunque
nel mondo ai profughi Palestinesi sia stato dato di godere di uguali
diritti rispetto ai cittadini del paese ospitante, essi hanno prosperato
e contribuito significativamente alla prosperità di quei paesi dove
sono stati accolti, siano questi i Paesi del Sud America (N.d.t. particolarmente il Cile), sia negli Stati Uniti d’America, sia nello stesso Stato di Israele.
Infatti
Israele è stato uno dei pochissimi stati nel mondo che hanno accordato
automaticamente piena cittadinanza ed uguaglianza di diritti a tutti i
Palestinesi presenti nello Stato di Israele dopo il 1948.
E
noi possiamo vedere oggi i risultati di quella decisione: a dispetto di
tutti gli ostacoli e delle difficoltà i cittadini Arabi di Israele sono
riusciti ad assicurarsi un futuro nello stato ebraico.
Gli
Arabi Israeliani sono i più istruiti del Mondo Arabo, quelli che godono
degli standard di vita migliori, e che hanno le migliori opportunità,
tra tutti gli Arabi della regione Medio Orientale.
Ci sono Arabi che sono Giudici della Corte Suprema dello Stato di Israele.
Alcuni dei Medici più rinomati in Israele sono Arabi, ed essi lavorano presso che in tutti gli ospedali del paese.
Nel
Parlamento siedono 13 Membri della Knesset eletti nelle file dei
Partiti Arabi, che godono del loro diritto di criticare il Governo –
cosa che essi concretamente fanno nel modo più esaustivo ed estremo che
sia immaginabile – protetti dal loro diritto di libertà assoluta di
parola.
Arabi sono alcuni dei vincitori dei più popolari talent show televisivi.
Ed addirittura vi sono diplomatici israeliani che sono Arabi, ed uno di loro è chi vi parla in questo momento.
Oggi, quando passeggio per le strade di Jaffa, io guardo i vecchi edifici ed il vecchio porto.
Ma
vedo anche bambini che vanno a scuola o studenti che vanno
all’Università, vedo imprese commerciali fiorenti, e mi vedo circondato
da una cultura viva e vibrante.
In
breve, nonostante il fatto che abbiamo ancora una lunga strada da
percorrere avanti a noi in quanto minoranza , nondimeno noi abbiamo un
futuro nello Stato di Israele.
E questo mi porta al punto successivo del mio discorso –
È
venuto il momento di porre fine alla cultura dell’odio e
dell’incitamento di quest’odio, perché l’Anti-Semitismo, io credo, è una
grande minaccia che incombe tanto sui Musulmani e sui Cristiani, quanto
incombe sugli Ebrei.
Sono
arrivato in Norvegia poco più di due anni or sono, e per me è stata la
prima volta in cui ho interagito con Ebrei locali in quanto esponenti di
una comunità minoritaria.
Ovviamente
ero abituato nella mia vita a considerarli la comunità di maggioranza.
Qui la loro condizione mi sembrava, devo dirlo, molto familiare.
Anch’io
sono cresciuto in un ambiente molto simile, nella comunita
Arabo-Cristiana di Jaffa. Ero parte della minoranza Ortodosso Cristiana,
che era parte della Comunità Cristiana in generale, che è una parte
minoritaria della minoranza Araba nello Stato Ebraico di Israele, il
solo stato non-musulmano del Medio Oriente Islamico. Lo vedete? È come
una matrioska russa, ogni volta che ne apri una, dentro c’è n’è una più
piccola. E la mia è la più piccola di tutte.
Essere
un Ebreo in Norvegia ed essere un Arabo in Israele, significa in
entrambi i casi che tu sei parte di una piccola comunità dove ognuno si
proccupa per gli altri e tutti si supportano a vicenda.
Ed
è una cosa bellissima che, a prescindere da ogni altra considerazione,
c’è e ci sarà sempre per te una comunità che si preoccuperà di
accudirti.
Essere
parte di una comunità di minoranza è stata per me una benedizione che
mi ha accompagnato in tutto il percorso della mia vita.
Tuttavia,
amici miei, la vita di una minoranza è sempre una vita impegnata nella
lotta che non ha mai fine per ottenere un trattamento equo.
Alle
volte ti capiterà di essere discriminato, ed è possibile che tu divenga
la vittima di un crimine che è espressione di un odio etnico.
Anche in una democrazia come Israele, essere una minoranza di etnia Araba non è una cosa semplice.
Appena
un anno fa una banda di giovani bulli appartenenti al movimento
“PriceTag” sono entrati nel cimitero di Jaffa ed hanno dissacrato le
tombe presenti con graffiti che dicevano “Morte agli Arabi”, ed una
delle tombe colpite in quel cimitero era quella di mio padre.
Essere una minoranza, amici miei, è sempre e dovunque una sfida da affrontare, perché essere una minoranza significa essere diversi.
E
nessuna nazione umana ha pagato un prezzo più caro per il fatto di
essere minoranza, per il fatto di essere diversi, del Popolo Ebraico.
La
storia del Popolo Ebraico ha contribuito ad aggiungere molte parole
prima sconosciute al vocabolario dell’Umanità, parole come:
“espulsione”, “conversione forzosa”, “inquisizione”, “ghetto”, “pogrom”,
per finire con la parola “Olocausto”.
Il
Rabbino Lord Jonathan Sacks, rabbino capo del Regno Unito, ci ha
spiegato accuratamente come gli Ebrei siano stati perseguitati
attraverso tutti i secoli proprio perché erano “diversi”.
Perché erano la più significativa minoranza non-Cristiana in Europa.
E prechè oggi sono la più significativa minoranza non-musulmana nel Medio Oriente.
Io però dico, amici miei, non siamo forse tutti “diversi”?
La verità è proprio questa: essere diversi è quello che ci rende umani!
Ogni individuo, ogni cultura, ogni forma religiosa è unica e, quindi, insostituibile.
Ed un’Europa o un Medio Oriente che non hanno più posto per gli Ebrei, beh, allora non hanno più posto per l’unanità.
Amici miei, non lo dimentichiamo!
L’Anti-Semitismo può iniziare a prendere di mira gli Ebrei, ma non finisce mai con essi.
Gli Ebrei non sono infatti stati i soli ad essere convertiti a forza sotto il torchio dell’Inquisizione;
Hitler si assicurò che zingari, omosessuali, e molti altri soffrissero lo sterminio nei campi di fianco agli Ebrei;
E sembra che la stessa cosa intenda verificarsi oggi, questa volta in Medio Oriente.
Il
Mondo Arabo sembra essersi voluto dimenticare che i suoi giorni più
splendidi nel corso degli ultimi 1400 anni, sono quelli in cui gli Arabi
hanno dimostrato di essere capaci di tolleranza e di apertura verso
coloro che erano diversi.
Il genio matematico Ibn Musa el-Khawazmi era Uzbeko,
Il grande filosofo Rumi era Persiano,
Il glorioso leader Salah a-din (Saladino) era Curdo,
Il fondatore del nazionalismo arabo moderno fu Michel Aflaq – un Cristiano,
E colui che ha dato al mondo la riscoperta islamica del pensiero di Platone ed Aristotele è stato Maimonide, un Ebreo.
Ma
invece di cercare di far rivivere oggi quell’approccio tollerante di
grande successo, ai giovani Arabi di oggi viene insegnato l’odio per gli
Ebrei, attraverso il ricorso alla retorica Anti-Semitica dell’Europa
Medioevale coniugata con l’Islamismo più radicale.
Ed
ancora una volta, ciò che è incominciato come ostilità verso gli Ebrei è
diventata ben presto ostilità nei confronti di chiunque sia
“differente”.
Solo
nel corso dell’ultima settimana oltre 60.000 Curdi hanno dovuto fuggire
dalla Siria in teritorio Turco nel terrore di essere massacrati dagli
Islamisti radicali.
Nello stesso giorno 15 Palestinesi di Gaza sono annegati cercando di sfuggire alle grinfie di Hamas;
Baha’i e Yazidi sono in grave pericolo.
E
in cima a tutto ciò vi è la pulizia etnica dei Cristiani dal Medio
Oriente, un crimine contro l’umanità che è forse il maggiore commesso
finora nel XXI secolo. Nel corso di appena due decenni infatti i
Cristiani come me sono stati ridotti dall’essere il 20% della
popolazione totale del Medio Oriente a costituire oggi il mero 4% di
essa.
E
se andiamo a vedere che in testa alla lista delle vittime dellla
violenza Islamista ci sono i Musulmani stessi, allora appare chiaro a
chiunque che, alla fine, l’odio finisce sempre per divorare anche lo
stesso odiatore.
Pertanto, amici,
se
vogliamo condurre al successo il nostro tentativo di proteggere il
nostro comune diritto ad essere diversi, e se vogliamo avere ancora un
futuro in questa regione del Mondo, allora credo che dobbiamo fare causa
comune, tutti insieme: Ebrei, Musulmani e Cristiani.
Noi
ci batteremo per il diritto dei Cristiani, ovunque essi siano nel
mondo, di vivere la loro fede senza paura, con la stessa passione con
cui ci batteremo per il diritto degli Ebrei di fare lo stesso.
E
noi ci batteremo contro l’islamofobia, ma abbiamo bisogno che i nostri
partners Musulmani si uniscano a noi nella battaglia contro la
Cristianofobia e contro la Giudeofobia.
Perché la posta in gioco è la nostra umanità, quell’umanità che condividiamo.
Lo
so che quanto sto dicendo può apparire ingenuo ai più, ma io credo che
sia possibile, e credo che la sola cosa che si frappone fra noi ed un
mondo più tollerante, sia la paura.
Quando un mondo inizia a cambiare la gente si proccupa perché è incerta su che cosa porterà con sé il futuro.
Una
simile paura porta la gente a contrarsi, a raggrinzirsi in una
posizione passiva di vittime, di persone che hanno un atteggiamento di
rifiuto della realtà, alla ricerca soltanto di qualcuno da incolpare
additandolo a tutti come il colpevole di tutto quello che sta
succedendo. E questo è vero oggi, tanto quanto era vero nel 1948.
Il
Mondo Arabo può riuscire a superare questa impostazione mentale
negativa, ma ciò richiede il coraggio necessario per pensare e per agire
in modo diverso da quanto è stato fatto finora.
Questo
cambiamento richiede agli Arabi di comprendere che non sono delle mere
vittime passive ed indifese di un processo storico. Richiede che gli
Arabi si aprano alla possibilità di poter fare auto-critica, e che
accettino di poter essere ritenuti responsabili delle proprie attuali
condizioni.
Tuttavia,
a tutt’oggi, non un solo libro di storia edito nel mondo arabo ha mai
posto la questione se forse il rifiuto totale della creazione di uno
stato ebraico non sia stato un errore di portata storica.
Nessun
Accademico Arabo di fama finora si è esposto per sostenere che se gli
Arabi avessero allora accettato l’idea du uno stato nazionale per gli
Ebrei, avremmo avuto due stati, non ci sarebbe stata alcuna guerra e
quindi non avremmo avuto alcun problema di profughi e rifugiati.
Io
vedo Israeliani come Benny Morris, che è con noi oggi, che hanno il
coraggio di sfidare le narrazioni politicamente standardizzate fatte
proprie dalle leadership al potere in Israele, e che si assumono rischi
personali andando alla ricerca di una verità che non sempre può essere
considerata confortevole dalla propria gente che è parte del conflitto.
Ma purtroppo non riesco ad individuare alcun loro omologo nel Mondo Arabo.
Io
non riesco a vedere traccia nel mondo Arabo di un dibattito che ponga
in questione la saggezza di una leadership distruttiva come quella del
Mufti di Gerusalemme Hajj Amin al-Hussaini; oppure la guerra non
inevitabile scatenata dalla lega Araba contro Israele nel 1948, o
qualsiasi altra guerra posteriore scatenata contro Israele fino ad oggi;
Ed
io non vedo neppure traccia di autocritica nella maggior parte della
società Palestinese di oggi a proposito dell’uso che è stato fatto del
terrorismo, del lancio di una seconda Intifada, oppure a proposito
dell’aver respinto almeno due offerte da parte israeliana tese a porre
fine al conflitto, negli ultimi 15 anni.
La capacità di riflettere su se stessi non significa debolezza; è un segno di forza.
Fa venire alla luce la nostra capacità di andare oltre le nostre paure per poter finalmente guardare in faccia la realtà.
È
un atto che ci richiede di guardare con sincerità mentre andiamo
all’interno dei nostri processi decisionali, e di assumerci le
responsabilità che discendono dalle nostre decisioni.
Solo gli stessi Arabi detengono il potere di cambiare la loro stessa realtà.
Smettendo
per esempio di propendere per teorie complottistiche e smettendo di
addossare sempre la colpe di tutto a qualche potere esterno – l’America,
gli Ebrei, l’Occidente o chi altri – quando ci si trova davanti a dei
problemi da risolvere;
Imparando dagli errori del passato;
Prendendo decisioni più sagge in avvenire.
Solo
due giorni fa il Presidente degli Stati Uniti Barak Obama ha parlato
dal podio delle Nazioni Unite di fronte ai delegati dell’Asssemblea
Generale ed ha detto:
“Il
compito di respingere ed abbandonare il settarismo e l’estremismo è un
compito che grava sulle spalle di un’intera generazione, un compito che
le genti del Medio Oriente devono assolvere esse stesse, da sole. Non
esiste alcun potere esterno che possa indurre una vera trasformazione
dei cuori e delle menti”.
Recentemente
ho avuto la possibilità di leggere un articolo molto interessante
scritto da Lord Sacks a proposito della rivalità fra fratelli presenti
nella Bibbia.
Solo
nella Genesi ci vengono presentate ben quattro storie di fratelli
rivali: Caino ed Abele, Isacco ed Ismaele, Giacobbe ed Esaù, e Giuseppe
ed i suoi fratelli.
Ciascuna di queste storie termina in un modo diverso –
Nel caso di Caino ed Abele, Abele alla fine viene ucciso.
Nel caso di Isacco ed Ismaele, i due si ritrovano insieme, in piedi, raccolti sulla tomba del loro padre.
Nel caso di Giacobbe ed Esaù, alla fine i fratelli si incontrano, si abbracciano, e poi se ne vanno ciascuno per la sua strada.
Ma nel caso di Giuseppe la fine è molto diversa.
Per
tutti coloro che non hanno troppa familiarità con questa storia,
Giuseppe era l’11° dei 12 figli maschi di Giacobbe ed il primogenito
avuto da sua moglie Rachele, nato nella Terra di Canaan.
Ad
un certo punto, a causa della loro gelosia per le qualità di Giuseppe, i
fratelli complottano e decidono di venderlo come schiavo.
Tuttavia,
dopo qualche tempo, Giuseppe risalì la china per diventare il secondo
uomo più potente dell’Egitto, subito dopo il Faraone.
Quando la carestia colpì Canaan suo Padre Giacobbe ed i suoi fratelli vennero nel prospero Egitto in cerca di salvezza.
Ed in Egitto Giuseppe, invece di punirli per ciò che gli avevano fatto, decide di perdonare tutti i suoi fratelli.
Si
tratta della prima narrazione in assoluto nella storia della
letteratura universale, che ci parla di perdono e di riconciliazione.
Giuseppe
provvede a tutti i bisogni dei suoi fratelli. Ed essi prosperano,
crescono in numero e divengono in Egitto una vasta nazione.
Alla
fine del racconto biblico Giuseppe dice ai suoi fratelli:
“Il vostro
intento era quello di farmi del male, ma il Signore lo ha mutato in
un’opportunità necessaria perché io potessi compiere, ora, ciò si deve
fare, e cioè provvedere a salvare molte vite umane”.
Con
questo discorso Giuseppe intese dire che attraverso le nostre azioni
nel presente noi possiamo dare forma al nostro futuro, e, facendo
questo, possiamo anche redimere il nostro passato.
Ebrei
e Peatinesi: possiamo anche non essere fratelli nella fede, ma
certamente siamo fratelli per il fatto che condividiamo lo stesso
destino umano.
Ed
io credo che proprio come nella storia di Giuseppe, attraverso la
capacità di fare le giuste scelte, e ponendo il focus della nostra
attenzione sul futuro, potremmo anche redimere il nostro passato.
I
nemici di ieri possono diventare gli amici di domani. È già successo
tra Israele e Germania, Israele ed Egitto, Israele e Giordania.
È
venuto il momento di incominciare a forgiare un nuovo raggio di
speranza per illuminare le relazioni tra Israeliani e Palestinesi, tale
che possiamo smettere di rinfacciarci le vecchie e reciproche lamentele,
e mettere il focus sul nostro futuro e sulle eccitanti prospettive che
esso ha in serbo per noi tutti, se solo troviamo il coraggio di osare.
Non vi ho ancora raccontato il resto della storia della mia famiglia, in quel 1948.
Dopo
un lungo viaggio verso il Libano, compiuto per la maggior parte a
piedi, i miei nonni George e Vera raggiunsero infine il Libano.
Restarono lì, per molti mesi. E mentre erano fermi lì, mia nonna diede
alla luce il loro primo figlio, mio zio Sami.
Allor
quando la Guerra finì, compresero che era stato loro mentito: gli Arabi
non avevano vinto la guerra, così come avevano promesso di fare. Ed
allo stesso tempo gli Ebrei non avevano ucciso gli Arabi, diversamente
da come i leaders Arabi avaveano detto loro che sarebbe successo.
Mio
Nonno si guardò intorno, e non vide nient’altro che una strada senza
uscita, il vicolo cieco di una vita da trascorrere tutta come profughi
senza speranza.
Guardò
la sua giovane moglie, Vera – che all’epoca non aveva nemmeno 18 anni –
e suo figlio, appena nato, e capì che in un luogo bloccato nel passato
non c’era alcuna possibilità di guardare avanti e che quindi non c’era
alcun futuro lì per la sua famiglia.
Mentre
i suoi fratelli e sorelle vedevano il loro fututo in Libano o in altri
paesi, Arabi o dell’Occidente, lui aveva pensieri diversi dai loro.
Lui voleva tornare a Jaffa, la sua città.
Per
il fatto di aver lavorato fianco a fianco con colleghi Ebrei nel
passato, ed essere riuscito a diventare loro amico, mio nonno non aveva
subito gli effetti del lavaggio del cervello praticato dalla propaganda
araba. Non c’era odio nel suo cuore.
Mio
Nonno George fece quello che pochi altri avrebbero osato fare – cercò
di contattare quelli che la sua stessa comunità vedeva come i loro
nemici.
Era
riuscito a ristabilire un contatto con uno dei suoi vecchi amici dei
tempi della Società Elettrica e gli chiese se poteva aiutarlo a
ritornare.
E
quall’amico di mio nonno, di cui ho sentito parlare nelle storie
raccontatemi da mio padre, e di cui non ho mai saputo il nome, non solo
era in grado e voleva essergli d’aiuto, ma in uno straordinario atto di
bontà riuscì addirittura a fare riavere a mio nonno il suo posto, in
quella che era nel frattempo diventata la Compagnia Elettrica Nazionale
di Israele, e facendo così di lui uno dei pochissimi Arabi che abbiamo
mai lavorato per loro.
Oggi,
fra i miei fratelli e sorelle, ed i miei cugini e cugine, ci sono
commercialisti, insegnanti, agenti assicurativi, ingegneri Hi-Tech,
diplomatici, direttori di stabilimento, professori universitari, medici,
avvocati, consulenti finanziari, managers di importanti imprese
Israeliane, architetti, e, naturalmente, anche elettricisti.
La
ragione per cui la mia famiglia ha avuto successo nella vita, e la
ragione per cui io sono qui di fronte a voi nelle vesti di un
rappresentante diplomatico di Israele e non come un profugo palestinese
dislocato in Libano, dipende dal fatto che mio Nonno ebbe il coraggio di
prendere una decisione che per altri era inconcepibile.
Invece
che cadere in uno stato di disperazione, egli riuscì a trovare una
speranza là dove nessuno avrebbe osato cercarla; egli scelse di vivere
in mezzo a quelli che erano considerati i suoi nemici, e decise che li
avrebbe tresformati in amici;
per questo motivo Io e la mia Famiglia dobbiamo a Lui, ed a mia Nonna, eterna gratitudine.
La storia della famiglia Deek dovrebbe diventare una fonte di ispirazione per il popolo Palestinese.
Noi non possiamo cambiare il passato.
Ma
possiamo assicurare un futuro alle generazioni che verranno dopo di
noi, se un giorno decideremo che possiamo correggere le conseguenze del
nostro passato.
Noi possiamo aiutare i profughi Palestinesi ad avere una vita normale;
Noi possiamo essere sinceri a proposito del nostro passato, ed imparare dai nostri errori;
E
noi possiamo unirci – Musulmani, Ebrei e Cristiani – per proteggere il
nostro diritto di essere diversi e così facendo preservare la nostra
umanità;
Perché è vero che noi non possiamo cambiare il passato;
Ma se facciamo tutto il resto, allora noi potremo cambiare i futuro.
Vi ringrazio.